ANIMALISMO? UNA QUESTIONE DI IDENTITÀ E TERRITORIO

Riccardo Tennenini

La pietà verso gli animali è talmente legata alla bontà del carattere da consentire di affermare fiduciosamente che l’uomo crudele con gli animali non può essere buono. Questa compassione proviene dalla medesima fonte donde viene la pietà verso gli uomini.

Arthur Schopenhauer.

In Germania come ho scritto in un precedente articolo per smontare tutte bufale dette sulla “tematica verde”, dimostrando come l’ecologismo non è globalista come credono molti in particolar da destra, ma völkisch. Lo stesso filosofo francese Alain de Benoist in un intervista rilasciata al Barbadillo ha detto: “L’ecologia ha una forza rivoluzionario-conservatrice”. L’ecologia non è compatibile con il liberal-capitalismo e con le logiche di mercato. Ogni popolo che tiene alla propria nazione non può tener conto solo delle industrie strategiche, economia di mercato e infrastrutture ma anche della sua flora e fauna. In modo particolare quella locale, selvatica e incontaminata. Queste “oasi verdi”, uno Stato etico dovrebbe salvaguardarle e proteggerle al meglio. Per difendere il fragile ecosistema terrestre che circonda la sua nazione. Lo stesso discorso fatto sull’ecologismo si può fare anche per l’animalismo. Che non è quello professato da Michela Vittoria Brambilla o di Silvio Berlusconi che si fa fotografare con il suo cane. Ma è un qualcosa profondamente legato alla kultur di un popolo. Basta vedere in ambito spirituale la differenza abissale che c’è tra il mondo indoeuropeo nel Pitagorismo, Buddismo e Induismo e quello abramitico nell’Ebraismo e Islam per capirlo. Oppure tra l’Europa che vede il cane come un amico, compagno di vita o parte della famiglia e la Cina dove è solo cibo, merce e niente più.

L’animalismo si ricollega in quella galassia völkisch che si sviluppò nella Germania di primi novecento. Nella Germania dell’epoca furono fatti molteplici sforzi per assicurare la tutela dei diritti degli animali. All’epoca la svolta etica animalista era molto seria a tal punto da riscontrare un grande successo e sostegno da buona parte del popolo tedesco e la salvaguardia degli animali era tutt’uno con quella ambientale. Supportata dai maggiori vertici del governo nazionalsocialista. Questa svolta fu così importante che nell’attuale Germania, le leggi concernente i diritti degli animali e la loro tutela, non sono altro che modifiche delle leggi vigenti durante il Terzo Reich.

La macellazione kosher (Shechita) non tanto diversa da quella halal e la vivisezione erano le principali tematiche affrontate contro il quale si battevano gli animalisti dell’epoca. Personalità come Arthur Schopenhauer, Richard Wagner, Hermann Göring, Heinrich Himmler e lo stesso Adolf Hitler presero ferma posizione in difesa degli animali. Nel 1927, viene chiesto da un esponente del NSDAP al Reichstag chiese provvedimenti contro la crudeltà sugli animali e contro la macellazione kosher. Cinque anni dopo nel 1932, il NSDAP propose un primo divieto della vivisezione. All’inizio del 1933, rappresentanti del partito Nazionalsocialista al parlamento Prussiano ordirono una conferenza per promulgare il divieto. Il 21 aprile 1933, poco dopo l’arrivo al potere del NSDAP, il Parlamento iniziò ad emendare leggi per la regolazione dell’uccisione degli animali.

«Nel nuovo Reich non può esserci più posto per la crudeltà verso gli animali.»

A.H

Nel 1934 in Germania fu organizzato una grande conferenza internazionale sulla protezione degli animali nella capitale. Il 18 marzo 1936, fu pubblicato un decreto che prevedeva il rimboschimento e sulla tutela della fauna selvatica; il 27 marzo venne promulgata una regolamentazione della macellazione dei pesci e degli altri animali a sangue freddo. Tra il 1937-38 l’animalismo divenne metodo di educazione e argomento di studio nelle scuole pubbliche e Università tedesche. Ed è ironico pensare che il più grande oppositore della vivisezione era un cacciatore, Hermann Göring, che il 16 agosto 1933 promulgò una legge che abolì a tutti gli effetti la vivisezione, rendendo illegale la sua pratica. Dopo la caduta del nazionalsocialismo la vivisezione fu integralmente ripristinata.

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1700 ANNI FA, LA CATTIVA GESTIONE DI UNA CRISI MIGRATORIA COSTÒ A ROMA IL SUO IMPERO

Annalisa Merelli

Fonte: Quartz

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Il 3 agosto dell’anno 387, ad Adrianopoli – città dell’allora Tracia, oggi parte della provincia turca di Edirne – si incrociarono le armi in una battaglia che Sant’Ambrogio ebbe a definire: “fine del mondo e dell’intera umanità”.

L’Imperatore Romano d’Oriente Flavio Giulio Valente Augusto – conosciuto più semplicemente come Valente, e soprannominato “Ultimus Romanorum” (l’ultimo vero Romano) – guidò le sue truppe contro i Goti – una popolazione germanica reputata “barbarica” dai Romani – ed il loro comandante Fritigerno. Valente, che aveva scelto di non attendere l’aiuto militare di suo nipote Graziano, Imperatore Romano d’Occidente, si risolse a scendere in campo alla testa di 40.000 soldati, contro i circa 100.000 di Fritigerno.

Fu un vero massacro: 30.000 soldati romani persero la vita, e l’aquila imperiale ne uscì clamorosamente sconfitta. Quella di Adrianopoli sarebbe stata la prima di molte altre disfatte, ed è considerata dagli storici il punto d’inizio del processo che portò nel 476 alla fine dell’Impero Romano d’Occidente. In quei giorni, i domini di Roma si estendevano su una superficie di circa 600 milioni di ettari – circa due terzi degli odierni Stati Uniti – contando una popolazione superiore al mezzo miliardo.

La sconfitta di Adrianopoli non fu causata dalla cocciuta brama di potere di Valente, o dalla sua grossolana sottovalutazione della forza belligerante del nemico. La disfatta probabilmente più rilevante dell’intera storia di Roma affonda le sue radici in qualcosa di ben diverso, ovvero una crisi migratoria.

Due anni prima, i Goti erano discesi in massa verso i territori romani in cerca di rifugio, e la cattiva gestione di un tale fenomeno diede inizio ad una catena di eventi che condussero al collasso di uno dei più grandi colossi politici e militari che l’umanità abbia mai conosciuto. Le similitudini con quando va accadendo oggi in Europa sono davvero inquietanti, e dovrebbero servire all’osservatore contemporaneo come monito assolutamente degno di attenzione.

Stando al resoconto dello storico Ammiano Marcellino, nel 376 i Goti furono costretti ad abbandonare i propri territori – localizzati nell’attuale Europa orientale – sotto la spinta degli Unni diretti a sud, Unni che lo stesso Marcellino non esitò a definire “una razza selvaggia senza pari”. “Gli Unni”, prosegue Marcellino, “si abbatterono dai picchi montuosi come turbini di vento scaturiti dai più remoti anfratti della Terra, procedendo a saccheggiare e distruggere tutto ciò che si parasse loro davanti nel cammino.”

Ciò risultò in un succedersi di terrificanti bagni di sangue, ed in un esodo di massa delle popolazioni gote, similmente a quanto oggi accade ai Siriani, ed a chiunque si trovi afflitto dalla piaga bellica. Queste optarono per stabilirsi in Tracia, giusto oltre il Danubio: la terra era in quei luoghi fertile, ed il fiume pareva costituire una valida difesa naturale dagli assalti unni.

Tuttavia, altri già governavano quelle latitudini – i Romani, sotto l’egida di Valente – e Fritigerno volle in un primo momento offrire a quest’ultimo la sua sottomissione, annunciando che lui e la sua gente “avrebbero vissuto in pace, rifornendo i ranghi romani di truppe ausiliarie se la necessità lo avesse richiesto.” Roma aveva senza dubbio molto da guadagnarci. Quelle terre, infatti, necessitavano di qualcuno che le coltivasse, ed una buona quantità di forze fresche non sarebbe stata certamente sgradita al potere imperiale. “Combinando la forza del suo popolo con questi nuovi innesti”, scrive Marcellino, “Valente ritenne di potersi costruire un esercito assolutamente invincibile.” Come segno di gratitudine all’Imperatore, Fritigerno si mostrò persino disposto a convertirsi al cristianesimo.

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Tutto ebbe inizio piuttosto pacificamente. I Romani si adoperarono in un’attività di ricerca e salvataggio assai simile alle operazioni analoghe condotte dai nostri contemporanei. Riporta Marcellino che “nessuno fu lasciato indietro, neppure i malati in fin di vita.” I Goti “attraversavano la corrente notte e giorno, senza sosta, imbarcandosi in grandi gruppi su chiatte, canoe e zattere di legno.” Marcellino osserva che “in tanti annegarono, dal momento che in molti, troppo numerosi per trovar posto sulle imbarcazioni, tentarono faticosamente di guadare il fiume a nuoto, finendo tuttavia per venir trascinati lontano dalla corrente.”

Si trattò di un flusso migratorio inaspettato e senza precedenti, che alcuni affermano aver riguardato addirittura 200.000 persone. Le autorità militari incaricate di occuparsi dei profughi provarono a stimarne il numero, ma si rivelò un’impresa del tutto infruttuosa.

Tradizionalmente, l’atteggiamento romano nei confronti dei “barbari”, per quanto dispotico si era sempre rivelato decisamente lungimirante. I gruppi di profughi venivano dislocati dove potevano essere più utili all’Impero, curandosi poco o niente dei loro desiderata; comunque, il processo solitamente sfociava in una assimilazione, che portava gli individui un tempo stranieri a farsi cittadini. Non era difficile incontrare discendenti di immigrati nei ranghi più elevati dell’esercito o della pubblica amministrazione. Lo schema che si riteneva poter mantenere l’Impero al sicuro dagli attacchi esterni era molto semplice: permettere a chi stava fuori di varcare i confini e diventare romano.

Tuttavia, questo meccanismo apparentemente fruttifero finì per incepparsi. Fra le autorità militari incaricate di provvedere vitto ed alloggio ai Goti – una versione antica dell’assistenza oggi offerta ai migranti al loro sbarco in Grecia o Italia – prese a dilagare la corruzione, ed in molti cercarono di trarre un illecito profitto dall’emergenza. I Goti, deprivati di ciò che era stato loro promesso, si trovarono costretti ad acquistare carne di cane dai Romani per sostentarsi. Marcellino non ha dubbi: “la proditoria avidità di costoro fu causa di infiniti disastri per Roma.”

Il rapporto di fiducia fra i Romani ed i Goti, soli e maltrattati, si era incrinato già svariate volte prima di Adrianopoli, e questi ultimi finirono per passare da un desiderio di integrazione ad un impeto distruttivo nei confronti di Roma. Meno di due anni dopo, Marcellino ebbe a scrivere: “con occhi rilucenti di rabbia, i barbari si diedero all’inseguimento dei nostri uomini.” Ad un simile scenario, la caduta dell’Impero ebbe a seguirne di lì a poco.

I migranti che tentano di entrare nell’Europa odierna non si trovano sul punto di sollevarsi in armi, e fortunatamente l’Europa d’oggi non è l’Impero Romano. Tuttavia gli accadimenti che riguardarono i Goti mostrano assai bene che le migrazioni sono state e sempre saranno parte integrante del nostro mondo. Vi sono due modi di rapportarsi ai rifugiati: promuovendo con essi dialogo ed inclusione, o facendoli sentire sgraditi e trascurati. La seconda via ha già condotto al disastro una volta, ed in un modo o nell’altro, non tarderà sicuramente a farsi causa di nuove disgrazie.

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MA QUALE GRETA IL VERO ECOLOGISMO È VÖLKISCH NON GLOBALISTA

Riccardo Tennenini

Oggi in molti ambienti l’argomento ecologismo è diventato di moda parlarne, in mano totalmente a neo-marxisti, generazioni di Millenials che seguono Greta Thumberg come una figura messianica dell’ecologismo globalista e da tecnocrati capitalisti. Così facendo, i vari movimenti di (((destra))), conservatori liberal e simili si fanno portavoce del più radicale anti-ecologismo come contro offensiva all’ecologismo globalista. Vantandosi di inquinare e non portare il ben che minimo rispetto per la natura e gli animali. Orgogliosi dell’automobile a benzina, del cospicuo consumo di carne e affermando che gli ecologisti attuali dicono solo cazzate riguardo il cambiamento climatico.

Eppure la storia ci dice una verità completamente diversa. In principio l’ecologismo autentico non era globalista ma völkisch!. Quello attuale NON è ecologismo ma anti-ecologismo e contro-ecologismo. La Germania a ricoperto un ruolo molto decisivo nell’ecologia, non per niente fu proprio lo zoologo tedesco Ernst Haeckel che nel 1867 coniò il termine “ecologia” al greco: oikos casa, abitazione logia discorso. Haeckel, scoprì, descrisse e nominò migliaia di nuove specie, mappò un albero genealogico relativo a tutte le forme di vita e coniò molti termini che ancora oggi usiamo in biologia, come antropogenesi, phylum, filogenesi, cellule staminali e il regno Protista. Haeckel promosse e rese popolare il lavoro di Charles Darwin in Germania associandosi alla corrente del “darwinismo sociale”. Sostenitore del razzialismo tedesco, di una visione olistica e parte integrante del movimento völkisch.

Haeckel pioniere dell’ecologia, con i suoi discepoli Willibald Hentschel, Wilhelm Bölsche e Bruno Wille, ha profondamente plasmato il pensiero delle future generazioni di ambientalisti incorporando la preoccupazione per la biosfera in una fitta rete di temi sociali. Il movimento völkisch è salito alla ribalta con un connubio tra naturalismo, romanticismo tedesco e politica conservatrice forgiata sotto l’influenza della filosofia goethiana, heideggeriana e di molti altri pensatori völkisch. Uno di questi fu Wilhelm Heinrich Riehl. I suoi scritti diventarono parte integrante del pensiero völkisch. Costruendo la sua weltanschauung in cui l’uomo e la società dovevano essere in una relazione simbiotica con la natura e il paesaggio.

Da questi presupposti il movimento völkisch sviluppò la sua ideologia politica contrapponendo il contadinato rurale sano di corpo e spirito delle campagne contro la degenerazione urbano-industriale dei cittadini malati delle grandi città. Unito ad una critica feroce del capitalismo e dello stile di vita condotto dall’uomo moderno borghese, sradicato nell’anima dal contatto intimo con la natura e la sua terra nativa. In un ambiente totalmente artificiale e tecno-meccanico. Tra i pensatori völkisch c’era il rifiuto della vita urbana e dei meccanismi freddi e impersonali della modernità. All’interno di questo movimento si svilupparono molteplici correnti ambientaliste, ecologiste, altre che proponevano uno stile di vita “olistico”, produzioni locali, cibo sano (quello che oggi sarebbe a km0) e agricolture dinamiche e sostenibili. Al centro dell’ideologia völkisch c’era una risposta critica della modernità razionalista, progressista e sempre più tecnica. Di fronte alle masse contadine che abbandonavano non solo le campagne ma anche la loro heimat (piccola patria) bucolica, per trasformarsi in proletari sradicati, utilizzati come “api operaie” dal capitalismo industriale per far funzionare le fabbriche. I pensatori völkisch risposero predicando un ritorno alla terra, alla frugalità e all’integrità di una vita “primitivista” che fosse in sintonia con la purezza della natura.

Raoul Francé, membro della “Deutscher Monistenbund” (Lega Monista) fondata da Haeckel elaborò le cosiddette “Lebensgesetze“, “leggi della vita” attraverso le quali l’ordine naturale determina l’ordine sociale. Si oppose come quasi tutti gli esponenti völkisch al melting-pot, considerandolo “innaturale”. I suoi membri volevano riunirsi con la natura (Nacktkultur). Praticavano il vegetarianesimo, favorivano il nudismo, facevano escursioni e crearono comunità alternative alla città. La Deutscher Monistenbund era un movimento romantico e spirituale che si opponeva al materialismo dell’epoca. Molti di loro erano pagani, adorando il sole, concepito come un’antica divinità germanica. I giovani Wandervogel in questo senso cantavano canzoni e suonavano chitarre intorno ai falò in un movimento che era strettamente coinvolto con Lebensreform (“riforma della vita”). Il filosofo Ludwig Klages influenzò profondamente questi giovani e in particolare la loro coscienza ecologica. “Mensch und die Erde” (Uomo e Terra) di Klages è considerato uno dei manifesti del movimento ecologista radicale in Germania. Anticipando quasi tutti i temi del movimento ecologista contemporaneo. Denunciando l’estinzione accelerata di numerose specie, il disturbo dell’equilibrio ecosistemico globale, la deforestazione, la distruzione degli habitat selvatici, l’espansione urbana e la crescente alienazione delle persone dalla natura. In termini enfatici ha denigrato il cristianesimo, il capitalismo, l’utilitarismo economico, l’iper-consumo e l’ideologia del “progresso”. Lebensreform era un movimento sociale alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX secolo in Germania, Austria e Svizzera che propagandava uno stile di vita di ritorno alla natura, sottolineando tra gli altri caratteri un alimentazione salutare, il crudismo, prodotti biologici, nudismo, liberazione sessuale, medicina alternativa e riforma religiosa e allo stesso tempo astensione etica da alcol, tabacco, droghe e vaccini. Hugo Höppener, che usò lo pseudonimo di Fidus fu uno degli artisti più significativi del movimento völkisch. Raffigurando figure nude tra il paesaggio naturale, non sessualizzate, ma in armonia con la natura.

Molti di questi temi verranno poi ripresi dalla Germania nazionalsocialista come ad esempio la lotta al fumo. In quegli anni sorse il più potente movimento anti-tabacco. Mentre durante gli anni successivi, altri movimenti anti-tabacco fallirono, tranne in Germania, dove la campagna era supportata dal governo dopo che i nazionalsocialisti salirono al potere. La Germania nazionalsocialista iniziò una forte campagna anti-tabacco e condusse la prima campagna pubblica anti-tabacco nella storia. I dottori tedeschi furono i primi a identificare i collegamenti tra il fumo e il cancro ai polmoni.1 Fu il movimento anti-fumo più potente al mondo negli anni trenta e nei primi anni quaranta. Il primo tra questi fu Deutscher Tabakgegnerverein zum Schutze der Nichtraucher (Associazione degli oppositori tedeschi al tabacco per la protezione dei non fumatori) fondata nel 1904. Nel 1910 a Trutnov, in Boemia. la seconda organizzazione anti-tabacco, fu la Bund Deutscher Tabakgegner (Federazione degli oppositori tedeschi al tabacco), venne fondata nel 1910. Nel 1920, la terza fu la Bund Deutscher Tabakgegner in der Tschechoslowakei (Federazione di oppositori tedeschi al tabacco in Cecoslovacchia) venne fondata a Praga, dopo che la Cecoslovacchia venne separata dall’Austria alla fine della prima guerra mondiale. La quarta Bund Deutscher Tabakgegner in Deutschösterreich (Federazione di oppositori tedeschi al tabacco nell’Austria tedesca) fu fondata a Graz nel 1920. Questi gruppi scrivevano su giornali come Der Tabakgegner (Gli oppositori al tabacco), pubblicato dall’organizzazione boema tra il 1912 e il 1932. Il Deutscher Tabakgegner (Oppositori tedeschi al tabacco) venne pubblicato a Dresda tra il 1919 e il 1935. Queste organizzazioni anti-tabacco erano anche contro l’uso di alcool. Viceversa negli Stati Uniti le lobby del fumo acquistavano sempre più potere sotto la guida di Edward Bernays. Celebre è la sua campagna “Torches of Freedom” del 1929 volta a incoraggiare le donne a fumare e lavorando in modo concreto con le associazioni femministe. Philip Morris, a tal proposito, sponsorizzò una serie di conferenze con lo scopo di insegnare “l’arte” del fumare alle donne. Questo per espandere il proprio mercato ed ampliare il numero di donne fumatrici, e per farlo aveva assunto proprio Edward Bernays, considerato al giorno d’oggi come il padre delle pubbliche relazioni, per aiutarlo a reclutare donne fumatrici. Bernays, a sua volta, si fece consigliare dallo psicanalista Abraham A. Brill. Nel 1928, George Washington Hill, Presidente dell’American Tobacco Company, intuì il potenziale che avrebbe potuto ricavare aprendo il mercato della sigarette alle donne e durante un’intervista dichiarò: «è come trovare una miniera d’oro proprio nel nostro cortile». Durante quella campagna fece fumare ad un gruppo di donne normali, non modelle delle Lucky Strike dicendogli che non solo fumare era simbolo di emancipazione, indipendenza e uguaglianza di genere, ma anche che la sigaretta è un prodotto di massa che diventa un potente simbolo identificativo carico di emozioni, rappresentando sia la torcia della statua della libertà che il fallo maschile sottomesso. Bernays riuscì a smantellare il tabù del fumo femminile e impiegando le donne nelle pubblicità del tabacco, nel suo intento portò ad un incremento delle vendite di sigarette tra le donne che raddoppiarono tra il 1923 e il 1929: nel 1923 erano solo il 5% delle sigarette vendute; nel 1929 aumentarono fino al 12%; nel 1935 la percentuale di sigarette fu del 18,1%. Il picco fu raggiunto nel 1965 con il 33,3% ed è rimasto a questo livello fino al 1977. Da allora tutte le donne nel mondo iniziarono a fumare perché si sentivano identificate nello slogan di Bernays.2

Nella Germania di Hitler il fumo fu vietato nei ristoranti e nei sistemi di trasporto pubblico, citando la salute pubblica, e il governo regolava severamente la pubblicità del fumo e delle sigarette. C’era anche un’alta tassa sul tabacco e le forniture di sigarette alla Wehrmacht erano razionate. Diverse organizzazioni sanitarie nella Germania nazional socialista iniziarono persino a sostenere che il fumo aumentava i rischi di aborti spontanei da parte delle donne incinte. Nel 1939, l’NSDAP mise fuori legge il fumo in tutti i suoi uffici, e Heinrich Himmler, l’allora capo delle Schutzstaffel (SS), limitò il personale di polizia e gli ufficiali delle SS dal fumare mentre erano in servizio.

Il movimento völkisch divenne gradualmente parte dell’ideologia nazionalsocialista dal 1930, noto come “Blut und Boden” (sangue e suolo) di Walter Darrè (in Inghilterra Jorian Jenks pioniere dell’ambientalismo ricoprì all’interno del British Union of Fascists ricoprì un ruolo simile a quello di Darrè). Assicurando così agli ecologisti la sua prima base di potere. Darrè ricevette il sostegno entusiasta di Rudolf Hess, l'”ala verde” del partito, diede slancio all’ideologia völkisch e alle tematiche da loro portate avanti. Già nel marzo 1933, una vasta gamma di leggi ambientaliste furono approvate e implementate sia a livello nazionale, che regionale e locale. Queste misure prevedevano la creazione di riserve naturali protette e sostenevano la silvicoltura sostenibile, ordinavano la protezione delle siepi e di altri habitat della fauna selvatica e progettavano la rete autostradale come un modo per avvicinare i tedeschi alla natura. Sempre alla presa al potere di Hitler, le preoccupazioni del NSDAP non furono solo poste al popolo e alla salvaguardia della natura, ma anche verso gli animali. Il tema “animalista” per quanto oggi ridicolizzato, banalizzato e portato avanti da persone imbarazzanti, all’interno del movimento völkisch era un tema molto serio. Tant’è che nel 1927, un rappresentante del NSDAP al Reichstag chiese provvedimenti contro la crudeltà sugli animali e contro la macellazione kosher.3 Nel 1932, il NSDAP propose un primo divieto della vivisezione. Nel 1934 in Germania fu approvata una legge nazionale sulla caccia per regolare quanti animali potevano essere uccisi all’anno e per stabilire adeguate “stagioni di caccia”. Questa legge sulla caccia era conosciuta come “Das Reichsjagdgesetz“, (Legge sulla caccia del Reich). Il Reichstag ha anche sostenuto il conto per l’educazione sulla conservazione degli animali a livello primario, secondario e universitario. Inoltre, nel 1935, fu approvata un’altra legge, la Reichsnaturschutzgesetz (Legge sulla protezione della natura del Reich). Questa legge ha inserito diverse specie autoctone in una lista di protezione tra cui il lupo e la lince eurasiatica. Senza questa legge è probabile che alcune specie sarebbero completamente estinte dalle foreste tedesche.

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1 https://www.scielosp.org/pdf/bwho/v84n6/v84n6a21.pdf

2 Tratto da: “Il Tramonto degli Stati Uniti – Volume II: con Appendice su Sudafrica, Rhodesia e Haiti”.

3 Arnold Arluke, Clinton Sanders, Regarding Animals[, Temple University Press, 1996, p. 133.

IL FALSO MITO DEL MELTING-POT

Plinius e Adalheidis

L’uomo moderno anatomicamente è il Cro-Magnon, che circa 35.000 anni fa, dopo la sua calata in Europa, avrebbe rapidamente soppiantato il Neanderthal, la cui scomparsa rimane ancora uno dei grandi misteri dell’antropologia. Alcune teorie propendono per un genocidio da parte dei Cro-Magnon(sapiens moderni), altre per un mescolamento delle due specie, la più probabile è che i Neanderthal non fossero capaci di competere con i Cro-Magnon per le risorse per la sopravvivenza e fossero andati estinguendosi. Qualche mescolamento è probabile, ma non su larga scala.

Arriviamo velocemente al Neolitico, tra 7500 a.C. e 3000 a.C. in Europa. Qui tratteremo più dell’Italia neolitica. Sappiamo che soprattutto nel Sud della penisola, in maggioranza arrivarono agricoltori provenienti dalla penisola anatolica, i quali, SPECIFICHIAMO, Anatolia NON significa “Turchia” e soprattutto NON significa “levantinismo-arabismo”. Erano popolazioni autoctone CAUCASICHE(EUROPIDI)stanziate lì da millenni. Invece, il Nord della penisola si riempì più di popolazioni alpine(il fenotipo alpino è uno dei più antichi d’Europa).

In ogni caso, queste popolazioni neolitiche furono soppiantate, con la guerra o la sottomissione forzata, dall’arrivo degli Indoeuropei. Chi erano gli Indoeuropei? Secondo la teoria kurganica di Maria Gimbùtas, gli Indoeuropei erano una popolazione caucasica(europide) sviluppatasi nelle steppe dell’odierna Russia meridionale ed ucraina.

Tutti gli europei moderni, oggigiorno, discendono anche dagli Indoeuropei che, in un periodo compreso tra il 3500 a.C. e il 1000 a.C. colonizzarono l’Europa ed anche l’altopiano Iranico(oltre all’India settentrionale) a più ondate: coloro che presero la via del Nord Europa oggi li definiamo “Germanici”, indo-iranici coloro che presero la via dell’odierno Iran, chi invece andò verso ovest furono coloro che definiamo “Italo-celti”: i ceppi poi si sarebbero separati, i Celti avrebbero colonizzato l’area della Gallia, gli Italici, appunto l’Italia, a più ondate: la prima sarebbe stata quella degli osco-umbri detti propri, composti da popoli quali i Sabini, i Marsi, gli Umbri, gli Osci e altre tribù di lingua osca, stabilitisi al centro appenninico e al Sud fino alla Calabria. Successivamente sarebbero saliti alla ribalta i latino-falisci, commisti alle popolazioni neolitiche dell’area dell’odierno Lazio. Per lungo tempo queste due stirpi avrebbero convissuto e si sarebbero influenzate a vicenda nell’Italia pre-romana, finché una città, appunto Roma, nel corso del I millennio a.C. avrebbe lentamente iniziato a predominare e ad imporre, alla fine del millennio, attraverso guerre e diplomazia, la romanizzazione culturale a tutti i popoli italici. I Veneti erano i “fratelli” e fedeli alleati dei Romani, che parlavano una lingua molto simile a quella latina, appartenente al ceppo latino-falisco.

Impossibili da non menzionare sono gli Etruschi, stanziati nell’odierna Toscana ove fiorì anche la civiltà villanoviana, e probabilmente gli stessi Etruschi sono una naturale continuazione di essa, al di là delle continue, ed a volte anche strampalate teorie “esotiche” che vengono per essi preposte, quali anatolici, medio-orientali o addirittura turchi, e tra il serio e il faceto(amerindi). Molto probabilmente gli Etruschi, organizzati in città-stato e mai in una singola nazione, sono il frutto dell’unione di villanoviani, piccoli gruppi di italici (che si riscontrano anche a livello linguistico e genetico: la Toscana è una delle regioni italiane con più alta concentrazione di DNA italo-celtico) e influenze greche, queste perlopiù provenienti dalle coste meridionali della penisola ove già coloni greci avevano fondato importanti città (tra cui, menzioniamo, la famosissima “fase orientalizzante”). Quando si parla di Etruschi, poi, non si possono non menzionare i Reti e i Camuni dell’arco alpino e prealpino, popolazioni appartenenti allo stesso ceppo autoctono alpino-tirrenico e affini agli Etruschi per lingua e cultura.

Sempre nel Nord, oltre ai già citati Galli di stirpe indoeuropea italo-celtica e di lingua celtica (il cui sostrato si ritrova ancora oggi nelle lingue gallo-italiche), troviamo anche gli autoctoni Liguri, che secondo alcuni sarebbero una popolazione atlanto-mediterranea parlante una forma arcaica di osco-umbro, che in seguito avrebbero assimilato la cultura celtica.

L’Italia sotto il dominio romano era essenzialmente popolata da italici romanizzati nella cultura, avendola lentamente perduta anche per la stessa cittadinanza romana che avevano richiesto all’inizio del I secolo a.C., anche se iscrizioni in lingua osca sono state ritrovate a Pompei risalenti al I secolo d.C.; il quadro genetico delle popolazioni da cui discendono gli italiani moderni è pressoché invariato dall’epoca preromana.

Qui serve un chiarimento riguardo chi pensa che gli schiavi dell’Impero, provenienti da ogni angolo, avrebbero “levantinizzato” l’Italia e l’Europa: sono affermazioni superficiali che lasciano il tempo che trovano. Anzitutto, gli schiavi provenivano appunto da ogni angolo dell’Impero e non solo dal Medio Oriente o dall’Egitto. C’era la Grecia, la Macedonia, l’Illirico, l’Anatolia, l’Iberia, la Gallia, la Britannia. E la popolazione servile, nel massimo periodo di splendore, non costituiva più del 35% della popolazione totale dell’intero Impero.

L’Italia rimase essenzialmente indoeuropea, ma allora come oggi, nel Sud rimase una discreta concentrazione neolitica, frammista ad influenze greche e osche, sia genetiche che culturali, sulle coste, che sarebbero continuate anche dopo la caduta dell’Impero con i domini bizantini(Impero romano d’Oriente). La calata dei Longobardi in Italia nel 568 è l’ultima da 1500 anni a questa parte che abbia un po’ rimescolato il patrimonio genetico degli abitanti della penisola, ma SOLO in zone precise. Sappiamo che al termine delle guerre gotiche del VI secolo la popolazione era ridotta a 4-5 milioni di abitanti, la metà rispetto a quella del Tardo Impero. I Longobardi, (in numero di 150.000-200.000) inizialmente oppressivi dominatori, col tempo si mitigarono e iniziarono a mescolarsi agli autoctoni italici(Romanici) nel Nord Italia, nella Tuscia(Toscana) e nel Sannio Beneventano(oltre al Molise). In queste zone si riscontra un discreto contributo longobardo, a livello linguistico ma in piccole proporzioni anche a livello genetico, mentre nella Riviera adriatica, in Sicilia e nel cosiddetto “corridoio bizantino” si ritrovano influenze greco-bizantine. Ma nonostante tutto questo, ancora oggi il corpus genetico degli italiani moderni, in generale, non è mutato di molto, se si eccettuano alcune aree specifiche. Franchi, Normanni e successive dominazioni, specie al sud, francesi e spagnole, erano costituite da gruppi di potere d’èlite, assolutamente irrilevanti dal punto di vista genetico, tutt’al più linguistiche, visto il discreto numero di termini napoletani in prestito da francese e spagnolo.

Quanto alle influenze germaniche, slave e franco-provenzali nelle vallate alpine, si tratta di minoranze giunte da oltralpe nel Medioevo e che tuttora conservano gelosamente la loro identità linguistica e culturale, ma che a nostro parere non giustificano le istanze secessioniste degli autoctoni.

Spesso, ultimamente, si sente parlare di “Medioevo multietnico”, secondo il quale i fitti scambi commerciali tra Mediterraneo e Nord Europa, tra Occidente e Oriente (tra cui, la via della seta che giungeva fino in Cina), le Crociate in Medio Oriente e la presenza di mercanti e viaggiatori stranieri nelle più importanti città portuali europee, giustificherebbero una “mescolanza” di popoli su larga scala, quasi come se fosse legittimo immaginarsi, in città come Marsiglia, Venezia o Costantinopoli, situazioni multietniche simili a quelle delle nostre metropoli attuali come la “cosmopolita” Londra( e non è un complimento). È un falso storico, forse dettato dall’esigenza di veicolare una visione “politicamente corretta della storia”, ma che di sicuro non corrisponde a verità: dopo le cosiddette “migrazioni di popoli” o “invasioni barbariche” che dir si voglia, che coinvolsero comunque popoli europei, l’Europa non ha più visto, nel corso dei secoli, migrazioni di massa di popoli provenienti dall’esterno, tanto che perfino la Turchia, che prende il nome dalle popolazioni dell’Asia centrale turche e turcofone del ceppo uralo-altaico (Ottomani) che la invasero nel XIV secolo e le più recenti migrazioni dal Medio Oriente, rimane nella sua parte occidentale un paese di retaggio indoeuropeo greco-anatolico.

Le altre nazioni dell’Europa occidentale, analogamente all’Italia, hanno conservato fino a tempi recenti la fisionomia che le caratterizzava fin dai tempi antichi: così come i Franchi non hanno reso la Francia un paese germanico, l’invasione islamica in Spagna non ha distrutto l’eredità celtiberica e latina, l’Inghilterra, nonostante le invasioni franco-normanne, romane e anglosassoni abbiano alterato il quadro linguistico e mitigato quello genetico, non ha subito influssi extraeuropei (se non ai tempi dell’imperialismo britannico, in età moderna), i paesi germanici, pressoché inalterati fin dall’età preromana, hanno subito grandi mutamenti genetici e sociali solo in seguito alle grandi migrazioni extraeuropee dell’ultimo secolo (escludendo ovviamente le minoranze ebraiche, fisicamente indistinguibili dagli europei).

L’est Europa invece andrebbe analizzato in separata sede in quanto ha subìto anche le invasioni di popoli turcofoni quali Avari, Bulgari e Cumani(in turco Kipcak), questi ultimi spesso in guerra poco dopo l’anno 1000 con i Variaghi-Slavi della Rus’ di Kiev. Il ceppo est europeo rimane comunque in maggioranza slavo, come pure la cultura e la lingua sono di natura slava.

Discorso a parte merita la presunta influenza araba in Sicilia o addirittura nel Meridione continentale della penisola. Quante volte sentite parlare di “Sud arabo”? Quante volte vi viene fatto credere che le “caratteristiche espressioni” dei meridionali siano araboidi? Tantissime. In realtà si tratta di percezioni distorte e di luoghi comuni passati nell’immaginario collettivo.

Iniziamo specificando che il Meridione italico MAI è stato sotto dominio arabo, tutt’al più i saraceni(berberi di solito) effettuavano scorrerie contro le coste tirreniche e adriatiche(dove per 40 anni in Puglia vi fu un califfato), ma a parte alcuni deportati dalla Sicilia dopo la calata dei Normanni in Sicilia, il Sud Italia ha sempre dovuto difendersi dai pirati saraceni e MAI è esistita una presunta commistione di arabi ed autoctoni. Solo alcuni sovrani longobardi del ducato di Benevento usarono truppe saracene per i loro fini.

La Sicilia, invece spesso additata come “araba” a prescindere, anche a causa della cattiva influenza di Michele Amari, autore ottocentesco, è forse la regione italiana più particolare di tutte. Di carattere prevalentemente neolitico, greco, italico(i Siculi erano un popolo italico, latino-falisco, proveniente dal Lazio), in età bizantina si arricchì di nuovi elementi greci, la conquista islamica fu sempre avversata dalle popolazioni autoctone che spesso soffrirono eccidi(a Palermo su 70.000 abitanti ne sopravvissero solo 3.000 in seguito alla conquista arabo-berbera), e durò meno di 200 anni, e in alcune zone della Sicilia orientale addirittura 90. I Normanni, corpo d’élite proveniente dal Nord-Europa(ma non Vichinghi puri come si è solito dipingerli) erano francesi di lingua e di cultura latina, misti a popolazioni germaniche. Il loro dominio sul Sud, a partire dalla metà del XI secolo, fu repentino. In Sicilia essi scacciarono rapidamente i berberi e gli arabi, e coloro che sopravvissero o non furono scacciati, nei secoli successivi, divenirono tristemente oggetto di persecuzioni e stermini. I Normanni stessi portarono popolazioni dal Nord Italia per ripopolare l’isola in alcune zone specifiche, le stesse dove oggi si parla il gallo-italico di Sicilia.

Detto ciò, anche nella stessa isola oggigiorno l’elemento genetico “arabo” tanto paventato è così irrisorio da non esser degno di menzione. Essa rimane di cultura greco-latina e geneticamente greco-italica.

Questo è quanto: le migrazioni recenti non possono e non devono essere usate come “modello” per descrivere il nostro passato. Non bisogna credere che gli italiani moderni siano araboidi-africani subsahariani imbastarditi da secoli e secoli di mescolanze. Semmai, quello è il destino che ci vogliono riservare in questi prossimi decenni, viste le invasioni di allogeni scaricati da mafie e barconi e ONG, e contro il quale ogni vero identitario deve sempre combattere.

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LA VERA STORIA DI HAITI

Il massacro dei bianchi sotto il dominio nero.

Bredford Hanson

Fonte: National Vanguard

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Lo stato caraibico di Haiti costituisce un impressionante monito di quanto possa essere devastante la schiavitù. All’alba del 1804, un effetto combinato di tredici anni di sommosse, omicidi e terrorismo avevano distrutto la popolazione bianca di Haiti, insieme con l’intera produzione agricola e l’economia di quella che era stata un tempo la colonia più florida dell’intero emisfero occidentale.

L’isola, originariamente denominata San Domingo, era divenuta il centro delle manovre spagnole sotto Hernando Cortes. Gli spagnoli mantennero una modesta presenza nel settore orientale dell’isola, avamposto oggi noto come Repubblica Dominicana. Il settore occidentale dell’isola, invece, era stato occupato dalle compagnie mercantili francesi nel 1697 e rinominato Saint-Domingue; proprio qui, sul lato est, ebbe luogo la feroce guerra razziale di cui andiamo trattando.

I locali amerindi, soprannominati “canibales” dagli spagnoli a motivo delle loro usanze antropofaghe, erano stati ridotti ad una sostanziale insignificanza dalla forza militare della corona di Spagna, dalla schiavitù, e da numerose malattie aventi origine in Europa, rispetto alle quali il loro organismo non possedeva alcuna difesa immunitaria. Pertanto, i francesi non tardarono ad iniziare ad importare schiavi africani per garantirsi manodopera nella colonia.

Nel 1789, Saint-Domingue era la punta di diamante dell’intero impero coloniale francese. Il suo clima ideale ed il suo suolo naturalmente fertile donava più zucchero, caffè, cotone di tutte le altre colonie nord-americane sommate insieme. La produzione di zucchero di Saint-Domingue non solo soddisfaceva completamente il fabbisogno francese, ma addirittura quello di circa metà continente europeo.

La ricchezza di Saint-Domingue era leggendaria, ed al deflagrare della Rivoluzione Francese, circa 40000 bianchi risiedevano nella colonia. Ciononostante, anche 450000 schiavi neri si trovavano sull’isola, faticando nei campi per garantire la loro prodigiosa resa agricola, ed a questo computo va aggiunta anche la compresenza di circa 27000 mulatti. Questa enorme popolazione non-bianca, perlopiù composta da schiavi, rappresentò la bomba demografica che finì per distruggere la colonia bianca di Saint-Domingue.

La Rivoluzione Francese del 1789 fu la scintilla che incendiò le tensioni razziali che da tempo ribollivano sottotraccia nella colonia. Un decreto dell’Assemblea Nazionale, datato 15 maggio 1791, concesse il diritto di voto sia alla popolazione bianca dell’isola, che a quella mulatta.

I coloni bianchi immediatamente protestarono. Il governatore generale dell’isola Blanchelande – nome appropriatissimo il suo – inviò una missiva a Parigi, avvisando i suoi superiori che l’implementazione di tali nuove norme avrebbe portato ad una “spaventosa guerra civile”, e addirittura alla perdita della colonia.

L’Assemblea Nazionale ritirò pertanto il precedente decreto, e stabilì che sarebbe toccato ai coloni stessi decidere quale forma di governo sarebbe stata più adeguata per la realtà locale, date le peculiari circostanze. Quando la notizia circolò a Saint-Domingue, la tensione crebbe. La popolazione mulatta, in particolare, si infuriò al sapere che solo pochi mesi dopo aver ricevuto il diritto di voto, questo diritto veniva loro revocato.

Un forte gruppo di pressione avverso alla schiavitù, denominato Amis des Noirs (“amici dei neri”), vide la luce in Francia, e divenne sempre più potente nel corso della Rivoluzione. Tale gruppo abolizionista domandava a gran voce l’emancipazione e la totalità dei diritti politici per l’intera popolazione non-bianca di Saint-Domingue, nera e mulatta, e reagì con furioso sdegno al secondo decreto che sottraeva agli individui di razza mista il diritto di eleggere i propri rappresentanti.

Come risultato degli sforzi del gruppo, l’Assemblea Nazionale varò un terzo decreto, volto a restituire ai mulatti ed ai “neri liberi” – i neri sciolti da qualunque legame di schiavitù – la piena cittadinanza politica. Quando la notizia si diffuse a Saint-Domingue, la popolazione nera diede il via ad una violenta rivolta armata, che vide individui bianchi attaccati a vista, piantagioni bruciate e rase al suolo, e l’intera isola sprofondata nel caos. La popolazione mulatta inizialmente parteggiò per i bianchi, ma presto salì sul carro del vincitore, sottomettendosi al nuovo dominio nero.

Al termine della sommossa, l’intero numero dei bianchi ad Haiti – uomini, donne e bambini – era stato trucidato. Dopo aver sterminato i bianchi, la popolazione nera non tardò a riversare la propria ira sui propri alleati mulatti, ed anch’essi furono massacrati senza pietà.

Il caos assoluto regnò fino al 1802, quando un distaccamento di ventimila soldati francesi fu inviato da Napoleone Bonaparte a ripristinare l’ordine sull’isola. Le forze francesi, sotto il comando del cognato di Napoleone, generale Leclerc, schiacciarono poderosamente la ribellione. Gli insorti furono inseguiti in ogni anfratto dove tentarono di rifugiarsi, ed i principali loro leader furono costretti a giurare fedeltà al nuovo governo francese.

Quando la situazione sembrava ormai essersi stabilizzata, si verificarono però due eventi disastrosi. Il primo di essi fu la reintroduzione della schiavitù da parte del governo napoleonico, ed il secondo l’esplosione del contagio epidemico da febbre gialla a Saint-Domingue. La concreta possibilità di un imminente ritorno della schiavitù riattizzò le sommosse nere sull’isola. Nel frattempo, le già assottigliate schiere francesi venivano decimate dalla malattia, capace di uccidere fino a centosessanta soldati al giorno. Entro il mese di agosto del 1802, quattro quinti delle truppe francesi giunte in precedenza quello stesso anno erano già stati annientati dal contagio.

Napoleone si risolse ad inviare ad Haiti forze fresche per rinvigorire la privatissima guarnigione francese. I nuovi soldati – circa diecimila – si trovarono ad essere aggrediti dalla febbre gialla, ed i rivoltosi neri, perlopiù immuni al morbo, ne approfittarono per attaccarli su larga scala. La situazione sull’isola, pertanto, ne risultò una volta ancora deteriorata.

In breve tempo, il conflitto prese una piega ancora più odiosa. Le autorità francesi decisero che l’unico modo per porre fine ad una guerra razziale che perdurava già da dodici anni fosse quello di giustiziare in massa tutti gli abitanti neri di età superiore ai venti anni. La ragione di ciò risiedeva nel fatto che verosimilmente nessun adulto nero, reduce da oltre un decennio di assalti razziali contro i bianchi, si sarebbe docilmente rassegnato a tornare a lavorare nei campi. I francesi ritennero di applicare il medesimo metro di giudizio alle donne nere, dal momento che le femmine di quella razza avevano dato prova di una crudeltà persino più abietta nei confronti dei prigionieri bianchi rispetto ai loro uomini. Con energia spietata, le superstiti truppe francesi eseguirono i nuovi ordini, e numerosi individui di origine africana furono uccisi in una maniera tanto arbitraria, ed entrambi gli schieramenti si trovarono avvinti in una spirale di reciproche atrocità che pareva davvero destinata a non conoscere una fine.

L’eco delle recenti guerre napoleoniche non tardò a giungere fin sull’isola. La Francia si trovò coinvolta in una guerra marittima con l’Inghilterra, ed i possedimenti coloniali di Saint-Domingue finirono sotto attacco. La marina inglese circondò l’isola, tagliò i viveri alla guarnigione francese, e rifornì i rivoltosi neri di armi da fuoco e munizioni.

Il principale capo ribelle nero, Dessalines, lanciò un’elevata quantità di attacchi contro i francesi, sempre più isolati ed asserragliati in alcuni villaggi della costa. Dessalines conquistò in breve villaggio dopo villaggio, e si curò di sterminare metodicamente tutti i bianchi presi prigionieri. Il 10 novembre 1803, gli stremati francesi dichiararono la propria resa alla flotta inglese ancorata alla rada. Dei 50000 soldati francesi inviati sull’isola, soltanto poche migliaia riuscirono a far ritorno alla madrepatria.

Con la partenza dei francesi, il leader nero Dessalines poté istituire, liberamente e senza ostacoli, il proprio regno di terrore, e la sua furia si abbatté su ogni bianco che malauguratamente ancora si trovava sul territorio dello stato. Saint-Domingue fu ufficialmente rinominata Haiti nel mese di dicembre del 1803, e dichiarata indipendente. Il Paese divenne la seconda Nazione indipendente nell’emisfero occidentale (dopo gli Stati Uniti d’America), e la prima guidata da un governo nero in tutti i Caraibi.

Dopo aver eliminato i bianchi, i neri ed i mulatti si scagliarono gli uni contro gli altri in una nuova guerra razziale, e questi ultimi finirono per essere sterminati quasi completamente, con Dessalines che – nell’ottobre del 1804 – dichiarò la vittoria della propria gente e si proclamò “imperatore a vita” di Haiti.

Quello stesso anno, Dessalines domandò ai bianchi che avevano lasciato Haiti di farvi ritorno, affinché contribuissero al rilancio dell’economia. Un numero sorprendentemente alto di ex-coloni accettò l’offerta, ma quando costoro si resero presto conto di aver commesso un gravissimo errore, era ormai troppo tardi.

Nel 1805, infatti, la popolazione nera si sollevò nuovamente contro gli insediamenti bianchi. Dessalines non si mostrò in grado di controllare le folle, nonostante le promesse di aiuto fatte ai bianchi che aveva fatto tornare, e gli europei si trovarono ancora una volta oggetto di una spietata caccia all’uomo. In data 18 marzo 1805, l’ultimo bianco di Haiti fu infine ucciso.

Saint-Domingue, che sotto il dominio francese era una delle terre più ricche di tutti i Caraibi, è oggi un ammasso di macerie da terzo mondo, pervaso da povertà, anarchia e caos. Questo stato dell’arte appare ancora più significativo se si considera che lo stato indipendente di Haiti è di soli trentacinque anni più giovane degli Stati Uniti d’America.

Ciò emerge dunque come un colpo fatale per la teoria “ambientale” dello sviluppo – se il tempo ed il contesto fossero gli unici fattori in grado di influenzare un processo di civilizzazione, Haiti dovrebbe, in quanto a progresso, trovarsi teoricamente a rivaleggiare con gli Stati Uniti.

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STIAMO VIVENDO UNA WEIMAR 2.O ?

Riccardo Tennenini

Sconcertanti similitudini e somiglianze tra la storia travagliata della Repubblica di Weimar con le società di oggi.

Alla caduta del Sacro Romano Impero, i tedeschi si unificarono lungo tutto il XVIII ed il XIX secolo sotto la guida della nobiltà germanica – caratterizzata da un forte carisma e da uno spiccato principium imperii – instaurando un ordine caratterizzato in ogni sua parte da lealtà e buongoverno. La Germania dell’epoca rappresentava veramente il cuore dell’Europa, e nel suo alveo nacquero geni e personalità eminenti di ogni campo, dalla filosofia, alla scienza, sino all’imprenditoria, ma a tale idillio la Prima Guerra Mondiale – orchestrata a tavolino da interessi globali corrotti, invidiosi di tanta grandezza – soggiunse purtroppo a porre drammaticamente fine. Nel corso del conflitto, la Germania conobbe numerose vittorie eroiche, e più volte cercò una tregua pacifica, ma tale prospettiva non avrebbe potuto essere accettata dai finanzieri corrotti che di quello stesso conflitto muovevano i fili, poiché ciò avrebbe senz’altro significato gravi perdite economiche ed una brusca interruzione della propria agenda. A causa di ciò, le modalità con cui la guerra effettivamente ebbe a finire furono cruciali per distruggere la Patria tedesca e preparare il terreno per l’avvento della Repubblica di Weimar; al fallimento dello sforzo bellico del Reich, infatti, seguì il deflagrare dell’azione armata dei militanti spartachisti, i quali – animati da un’ideologia di stampo sovietico – scatenarono violente rivolte che divamparono su tutto il territorio della Nazione.

Cadde l’Impero, la guerra finì, e l’élite globalista si trovò a banchettare sul cadavere della Germania, su cui ci si apprestò a costruire le fondamenta della Repubblica di Weimar. Nell’ambito dell’infausto Trattato di Versailles, il corpo della Patria tedesca fu smembrato dagli avvoltoi demo-liberali che del gabinetto weimariano – riferimento alla città dove il governo del nuovo ordine si era riunito per la prima volta – costituivano il nerbo, senza essere avversati da alcuna autentica opposizione politica. Per quasi un decennio, la politica di Weimar fu dominata in modo schiacciante da istanze marxiste e liberali, dopo che per i 70-80 anni precedenti le medesime, nefaste influenze avevano seminato il caos in tutta la Germania, impedendo al popolo tedesco di sperimentare la vera pace.

In questa “neo-Germania” dilaniata e divisa, i primi anni della Repubblica di Weimar fluirono colmi di tumulti, sofferenze e dolori, scarsità alimentare e povertà endemica. Appare incredibile constatare come – in pochissimo tempo – la Nazione tedesca sia passata dal trovarsi nel novero delle potenze europee più ricche, ad una devastazione tanto tragica. Fra il 1923 ed il 1925, si verificò l’occupazione della Ruhr (Ruhrbesetzung) da parte di Francia e Belgio, volta a riscuotere le riparazioni economiche conseguenti alla Prima Guerra Mondiale: un disastro assoluto. Il governo di Weimar si mostrava del tutto incapace a fronteggiare una situazione di tale emergenza, in un contesto spiccatamente caratterizzato da una vera e propria “anti-cultura”, da una società malata e degenerata in cui tutto era tollerato.

Berlino, in breve tempo, divenne la Sodoma mondiale del sesso. Molte donne e bambine tedesche – per sopravvivere – si diedero alla prostituzione in strada, esibendo sé stesse come merce in vendita al mercato. Nessuna perversione sessuale appariva fuori luogo, ed al centro di tutto emergeva la controversa figura di Magnus Hirschfeld, fondatore del celeberrimo “Istituto di ricerca sessuale” berlinese. Anche in numerose pellicole cinematografiche i riferimenti espliciti abbondavano, ed in un contesto così iper-sessualizzato – inutile dirlo – il business pornografico divenne estremamente in voga, alla moda, e financo redditizio.

Neppure l’arte si salvava, va purtroppo constatato. Sempre più si sperimentarono opere perverse, totalmente distaccate dall’arte tedesca vera e propria, con i suoi magnifici scenari popolari e naturalisti. Il dadaismo ed il cubismo dilagarono, e persino la fotografia di Erwin Blumenfeld cercò di cavalcare l’onda del momento, iniettando temi sovversivi ed anti-tedeschi nei propri lavori.

La mesta vicenda della Repubblica di Weimar non si discosta molto da quanto stiamo vivendo noi oggi. Weimar conobbe il suo baratro quando al crollo del mercato azionario statunitense seguì la Grande Depressione globale, in maniera non dissimile a quanto avvenuto nel 2008. Tanto la Repubblica di Weimar quanto la società italiana si mostrarono egualmente impreparate dinanzi al deflagrare della crisi economica, con il diffondersi di disoccupazione, fame e malattie. Se il collasso monetario di quegli anni lontani è un ricordo drammatico, l’incubo di Weimar appare oggi essere più presente che mai. Tutti i fenomeni che lo caratterizzarono, infatti, sono annoverabili nelle circostanze attuali, figli di problemi forse mai davvero superati, ma semplicemente evolutisi con il tempo.

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CHE COSA POSSIAMO IMPARARE DAL GIAPPONE

Edoardo Gagliardi

Sarebbe un errore pensare che solo l’Occidente sia in pericolo estinzione per quanto concerne la propria identità etnica, razziale e culturale. Anche l’Asia è finita sotto il mirino degli immigrazionisti che, seppur in misura minore rispetto all’Occidente, non mancano mai di sottolineare come ad esempio il Giappone abbia bisogno di una bella iniezione di immigrati, perché “la popolazione giapponese invecchia”. Non si fermeranno fino a quando non avranno portato a compimento il loro progetto, quello cioè di multiculturalizzare anche il Paese nipponico.

In questo articolo si tenterà di fare due cose: 1) mostrare al lettore che le preoccupazioni degli immigrazionisti sono infondate e 2) che noi Occidentali potremmo imparare davvero molto dalla storia del Giappone e di come esso si sia comportato nei riguardi dell’immigrazione e influenze straniere.

La popolazione totale del Giappone è stimata intorno ai 126 milioni (previsione aprile 2020)1, per una superficie di 377.975 km², nello specifico 343 ab./km². Considerando questi numeri non si può certo dire che la popolazione del Giappone sia poca, anzi, forse potrebbe apparire anche troppa vista la densità abitativa. Ora, se anche il Paese dovesse perdere qualche milione di abitanti, questo non comporterebbe nessun problema e non significherebbe nemmeno che vi sia la necessità di importare milioni di allogeni.

Ma guardiamo alla storia del Giappone, anche per comprendere come si possa imparare da questo Paese a gestire l’immigrazione. Gli storici occidentali imbevuti di marxismo culturale ignorano (volutamente) che il Giappone ha vissuto un periodo lungo oltre 250 anni, conosciuto con il nome di periodo Edo (1603-1868). Gli storici che non lo ignorano, liquidano questo periodo come uno dei momenti più bassi della civiltà giapponese, un periodo di “chiusura” al mondo esterno. Ebbene, se di chiusura si può parlare, bisogna dirlo forte: mai periodo fu più fecondo e prezioso per un popolo come quello Edo in Giappone.

In questo periodo non solo vi fu una fioritura culturale mai vista prima, ma si contribuì alla costruzione dell’identità nazionale. Il Giappone del periodo Edo chiuse le porte a tutte quelle forze politiche, economiche, culturali che volevano penetrare nel Paese per colonizzarlo, svuotarlo dall’interno. Se non si fosse avuto il periodo Edo, noi oggi probabilmente conosceremmo un Giappone diverso, nell’anima e nello spirito. Per usare un linguaggio occidentale si potrebbe dire che il Giappone ha adottato un saggo isolazionismo e protezionismo, non solo economico e politico, ma anche – e soprattutto – etnico-razziale. Questo non vuol dire affatto che gli stranieri non erano ammessi in Giappone, lo erano nella misura in cui il Giappone decideva che lo potevano essere. In altre parole, l’ingresso nel Paese era fortemente regolato e ristretto, ed era vietata qualsiasi libertà di movimento al suo interno.

Il popolo per formarsi ha bisogno di tempo e, nella sua fase di crescita ha bisogno di costruire un’identità che poi sarà alla base della formazione di una comunità, sia essa statale o nazionale. Il periodo Edo corrisponde ad un’età in cui il Giappone si andava formando come popolo e come identità nazionale, ed è per questo che i giapponesi intelligentemente compresero come la necessità di isolarsi fosse il prerequisito fondamentale. Il popolo al posto dell’economia; la costruzione dell’identità etnico-razziale al posto dell’estinzione multiculturale.

Il termine giapponese per indicare la chiusura al mondo esterno e la politica intrapresa nel periodo Edo è Sakoku (Paese chiuso). Come già detto, le influenze esterne, politiche, religiose ed economiche vennero quasi completamente annullate. Il Sakoku ci dimostra una grande verità: per preservare un popolo e costruire l’identità di una nazione l’isolamento è una fase necessaria, soprattutto quando il Paese è ancora in una fase embrionale, di costruzione della propria identità politica, culturale e spirituale. Nel mondo contemporaneo l’educazione e la propaganda inculcano l’esatto opposto: l’apertura e il mescolamento sono la via principale per lo sviluppo di un popolo e di una nazione. I fatti parlano più forte della propaganda: il giappone è rimasto giapponese, il mondo occidentale sta scomparendo, come popoli, come culture, come identità storica e politica. Per quanto tempo ancora vogliamo ignorare la realtà? E soprattutto, non sarebbe il caso, come europei, di guardare a modelli costruttivi di società anziché a modelli distruttivi?

Una delle più grandi operazioni culturali del periodo fu il Kokugaku, ovvero lo “studio nazionale”. Ci si accorse che vi era tutto un patrimonio di letteratura antica, leggende, miti, folklore, da riscoprire. Grazie ad esso si poteva costruire la nazione e l’identità di popolo. Questo movimento di riscoperta partiva da un presupposto basilare: ristabilire la purezza giapponese, il vero spirito del Giappone, non intaccato da influenze straniere.

In questo modo la cultura giapponese avrebbe acquistato una sua centralità nella costruzione dell’identità etnico-razziale. Infatti giapponese non è semplicemente colui che conosce la lingua, i costumi e che vive in Giappone, ma è colui che ha un legame di sangue con il resto della comunità, in maniera orizzontale e verticale: il vertice sta negli antichi, nella sorgente sacra da dove tutto nasce e scorre. Preservare la purezza significa conservare il legame con l’antichità. Si capisce allora il perché dell’isolazionismo giapponese.

Non ci si faccia ingannare, la fine del periodo Edo, non significa che il Giappone si apra completamente al mondo. Qui entra in gioco un altro modo di fare che l’Occidente dovrebbe imparare: il Giappone apprendeva dal mondo, ma rielaborava a modo suo, filtrando gli insegnamenti e le influenze del mondo attraverso il proprio sistema di valori e la propria visione del mondo. Questa peculiarità ha permesso al Giappone, pur distrutto dal II conflitto mondiale, di diventare una potenza mondiale.

Nel XX secolo il Giappone è divenuto una potenza militare e politica prima e poi, risorto dalle ceneri della guerra, ha saputo riconquistare un posto nel mondo delle potenze che contano. Ed è per questo che il visitatore occidentale si trova a volte spiazzato nel vedere come in terra nipponica si trovino le più moderne tecnologie accanto a tradizioni spirituali e di popoli antichissimi, ancora fortemente sentite dalle persone. Ma se questo è possibile, se l’economia, il consumismo (che pure esiste), l’immigrazionismo, non hanno (ancora) distrutto il Giappone, lo si deve anche – e forse soprattutto – al fatto che il Paese ha saputo mantenere per secoli l’omogeneità etnica e razziale. Mantenendo ferma quella, i sistemi politici ed economici sono potuti anche mutare, ma ciò non ha estinto il popolo.

Lo sanno bene gli immigrazionisti, che infatti battono sulla teoria dell’invecchiamento della popolazione per far digerire ai giapponesi milioni di immigrati sul proprio territorio. Che la saggezza della loro storia non li abbandoni ai tentacoli di questo pensiero velenoso!

In Occidente poi si tace colpevolmente sul fatto che, appunto, il Giappone ha saputo creare dal nulla una potenza economica senza importare un migrante di troppo (quelli che ci sono sono per la maggior parte coreani e cinesi). Ci viene detto che un Paese non può crescere senza l’apporto dei migranti, niente di più falso. Non solo il Giappone è cresciuto, ma è anche sopravvissuto. Avesse scelto un’altra strada oggi avremmo un Brasile al posto del Giappone.

Gli occidentali, in particolare un certo tipo di europei e statunitensi, dovrebbero anche comprendere che per un giapponese il termine etnia e razza non creano un senso di repulsione. Al contrario questi termini sono associati alla comunità. Quando si elogia il rigore, il rispetto per le regole, l’ordine della società giapponese, si ignora il fatto che questi elementi sono esattamente il frutto di una comunità compatta e coesa, che l’omogeneità etnico-razziale contribuisce a formare. Laddove manca questa omogeneità le energia di un popolo si perdono per affrontare i continui scontri con altre comunità, nella speranza di un’integrazione/assimilazione che non avverrà mai.

Sentirsi parte di un’identità etnico-razziale determinata è una caratteristica che va al di là delle formazioni politiche e delle scelte spirituali, è qualcosa di prepolitico e prespirituale.

Oggi, nel XXI secolo, il Giappone sta dimostrando ancora una volta la propria volontà di preservare l’identità del suo popolo. Basti soltanto raccontare di come in Giappone si stanno introducendo dei robot per accudire le persone anziane. Non quindi colf e badanti a migliaia, ma robot che sono prodotti in Giappone, progettati e assemblati da giapponesi. Invece di importare immigrati, si punta sulla tecnologia che offre lavoro ai locali. Esattamente l’opposto delle politiche che si mettono in atto in Europa. Il tasso di disoccupazione in Giappone è al 2,5%2, nell’area Euro è del 7,4%3, inondata da immigranti spesso non qualificati provenienti dall’Africa e dal Medioriente. Di qui la questione, davvero al Giappone servono altri milioni di abitanti? Innanzitutto se si volesse, basterebbe applicare serie politiche per stimolare la natalità, ma al netto di tutto questo, la domanda è: a che serve aumentare la popolazione se non è autoctona? Se ha perso completamente la propria identità etnica e razziale? Riteniamo non solo che non serva, ma sia anche controproducente. Non ci vuole molto per prendere un libro di storia, anche di quelli revisionisti, per rendersi conto che tutti gli esperimenti di società multiculturali (ovvero multietniche e multirazziali) hanno fallito. Laddove non hanno fallito mostrano profonde ferite dovute alle costanti tensioni tra le comunità costrette a vivere sullo stesso territorio.

Bisogna certamente essere sanamente realisti ed evidenziare due cose: 1) il Giappone non merita affatto apologie, non è un Paese senza problemi, tuttavia il fatto che abbia alcuni problemi non vuol dire che abbia i problemi che affliggono l’Europa. L’estinzione dei popoli europei è in atto, quella del popolo giapponese ancora no. Questo ci fa comprendere già come da quel popolo si può imparare molto. 2) I popoli sono composti da un aspetto biologico e uno culturale, uniti insieme a formare un’unità bioculturale che è alla base della differenziazione con altri popoli. Con questo si vuole dire che non si può semplicemente prendere un modello di popolo e calarlo dall’alto su un altro. Non funzionerebbe. Quello che si può fare però è iniziare a costruire un modello di società e di popolo basato su alti valori e questi valori possono venire anche da altre tradizioni, altre storie nazionali, per poi essere adattati e riapplicati. Si tratta di un processo che prende tempo, richiede sforzo ed energie, il tempo non è molto, ma l’obiettivo è la salvezza e il rilancio di quello che rimane dei popoli europei e della loro identità etnico-razziale.

1 https://www.stat.go.jp/english/data/jinsui/tsuki/index.html

2 https://www.stat.go.jp/english/data/roudou/results/month/index.html

3 https://www.statista.com/statistics/268830/unemployment-rate-in-eu-countries/

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STORIA E DECLINO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

Riccardo Tennenini e Nicola Sgueo

Recensione del libro in due volumi “Il tramonto dell’Europa” e “Il tramonto degli Stati Uniti d’America”.

Le proteste dei Black Lives Matter scaturite dalla morte di George Floyd hanno assunto una portata globale, mostrando al mondo l’utopia del modello multiculturale proiettato verso l’abisso tra tensioni etniche, e meccanismi di mercato. A questo punto c’è da farsi una domanda che cosa accade al “mondo bianco”? Afflitto dal declino demografico e sottoposto e immigrazione di massa dal Terzo Mondo, l’Occidente si avvia al tramonto della propria civiltà. Tra “white guilt”, inginocchiamenti di massa con il pugno alzato, blackwashing della storia europea, cancel culture, il “mondo bianco” diventa sempre più una civiltà fantasma. Questo saggio affronta il suo declino alla radice, riportando ciò che i mass-media mainstream non dicono: un viaggio nell’Europa che verrà, dove alla disgregazione delle identità si accompagna la terzomondizzazione del Continente.