YANAGIHARA E IL PESSIMISMO DEL QUOTIDIANO

Riccardo Tennenini

In precedenza abbiamo parlato del “pessimismo di Marx” che riguardava l’aspetto lavorativo, in questo nuovo articolo invece vedremo un’altro “pessimismo” non presente all’interno di un pensiero filosofico ma veicolato attraverso la narrativa. Stiamo parlando del romanzo “Una vita come tante” di Yanagihara. In questo romanzo di oltre mille pagine se identifichiamo l’esistenza del protagonista Jude a quella di ognuno di noi è possibile riscontrare una chiara visione di quello che possiamo definire un pessimismo del quotidiano. L’autolesionismo viene visto come unica o forse l’ultima forma di redenzione, il senso di colpa che diventa biasimo di se stessi per ciò che si è stati e che ha plasmato inevitabilmente ciò che si è diventati. La speranza nel prossimo sempre disillusa tra violenza e morte. La perdita penso possa essere la parola esatta per descrivere il pessimismo del quotidiano di questo romanzo. Infatti al protagonista pagine dopo pagine, si trova di fronte una realtà americana contemporanea che quotidianamente gli fa perdere tutto, compresa la sua umanità. La perdita è espressa in descrizioni lucide e dettagliate di tutto ciò che capita nella vita di Jude.  Ad ogni perdita ciò che guadagna in cambio sono solo altrettante perdite mascherate dalla speranza. 

Questo pessimismo, in conclusione possiamo dire che ci mette davanti al fatto che tanto nel romanzo quanto nella vita non c’è un lieto fine. Anzi fino alla fine proprio come il protagonista subisce i più atroci dolori.  

OTTO WEININGER TRA TERZO SESSO E RED-PILL

Riccardo Tennenini

Nella seconda metà del XIX secolo si affacciano al panorama filosofico e culturale weimariano teorie articolate e complesse riguardo la sessualità. Queste si affiancano alle nuove scoperte scientifiche. Fu questo il caso di Otto Weininger  (Vienna 1880 – Vienna 1903) ebreo naturalizzato tedesco, imprescindibile per la comprensione tanto del panorama culturale weimariano quanto quello attuale. 

Nella sua opera Geschlecht und Charakter del 1903 si possono far risalire le origini dell’iper-sessualizzazione attuale.  Otto morì suicida, all’età di ventitré anni, immediatamente dopo la pubblicazione del libro. Egli costruì la sua filosofia sulle differenze ontologiche dei due sessi. Ma la distinzione di genere tra donna e uomo non è solo ontologica, bensì anche deontologica: la modalità d’essere del maschio per essere veramente Uomo deve essere in grado di innalzarsi ad un livello superiore del pensiero metafisico. D’altra parte, invece, la donna trova la sua raison d’etre nel piano prettamente materiale in modo particolare nella sessualità. Aggiungendo che nell’uomo la sessualità c’è ma riguarda solo una piccola parte del suo molteplice modo d’essere mentre nella donna è la sola ed l’unica cosa. Ed è per questo motivo che ricopre un ruolo così importante per lei. Perciò ecco che il maschio divenne rappresentante della profondità intellettuali, e dell’interiorità spirituale mentre la donna l’emblema della sessualità, concupiscenza e dell’esteriorità materiale.

Per Weininger i generi sessuali sono intesi non in senso prettamente biologico ma come idea in senso platonico che hanno un’unica funzione euristica ed epistemologica. Infatti, arriva a considerare che non esistono solo due generi sessuali (l’uomo e la donna) , ma che essi sono esclusivamente una varietà di gradi intermedi fra l’uno e l’altra. Da qui si svilupparono poi tutte le teorie postume di infiniti generi sessuali fino ad arrivare alla teoria Lgbtq e la teoria Redpill. Dunque, Geschlecht und Charakter è un’attuale critica alla cultura moderna, che, agli occhi del giovane Weininger, era un’epoca “degenerata“, in cui la sessualità era diventata un dovere, una necessità eugenetica. Weininger riprende il modello fechneriano dell’Allbesseltheit, dotandolo di qualità ontologiche e metafisiche.

Egli fu un profeta, dunque, proveniente dalla crisi europea, visse in maniera radicale e morì in maniera altrettanto radicale esprimendo quel disagio esistenziale della sua generazione che noi oggi stiamo rivivendo con le nuove generazioni iper-sessualizzate.

Pessimismo marxiano

Riccardo Tennenini

“Il mio lavorare non è vita”
K.Marx

Quando si parla di pessimismo, in genere, ci viene in mente la figura di Schopenhauer. Ma in questo articolo, come si può leggere dal titolo, tratterò di un’altro tipo di “pessimismo” non riconosciuto come tale o forse non preso in considerazione quello di Marx. Il pessimismo di Schopenhauer è esteso all’intero cosmo, quello di Marx invece riguarda l’ambiente lavorativo. In quanto il proletario sembra essere destinato ad una condizione esistenziale precaria di dolore immutabile. Per molti lettori e studiosi del pensiero di Marx sembrerebbe proporci una filosofia tutt’altro che pessimista, influenzata dall’hegelismo e da un ottimistico processo della storia. Questo è vero, se si osserva dal punto di vista solo del materialismo storico con i suoi tre momenti dialettici, ma se ci soffermiamo sulla condizione esistenziale del proletario come protagonista principale della modernità. Ci accorgiamo che il suo “destino” non è poi così positivo. Partiamo dicendo che la sua esistenza ruota attorno al lavoro. Il lavoro è emancipato dalla borghesia come fonte di felicità e libertà dell’individuo. Quando il proletario diventa un lavoratore salariato per sperimentare in prima persona una tale  felicità e libertà si trova davanti quattro alienazioni. La prima alienazione lo estrania dal ciò che produce che non gli appartiene, non può neanche prendersi il merito in quanto non è lui a farlo ma con la divisione del lavoro l’intera produzione di un oggetto e particellata tra tutti i lavoratori quindi il singolo prodotto è fatto da tutti e da nessuno. La seconda alienazione lo estrania verso la sua stessa attività che non è libera e le sue azioni non sono frutto di sue scelte volontarie ma è il lavoro che sceglie per lui cosa deve fare, come e per quanto tempo. 

La terza alienazione lo porta a estraniarsi dalla sua stessa esistenza divenuta meccanica, monotona, ripetitiva e totalmente priva di senso. L’ultima alienazione lo porta ad estraniarsi dagli altri dettato dal fatto che il lavoro salariato non gli permette di avere del tempo libero per avere rapporti sociali. Queste quattro alienazioni rappresentano ciò che subisce il proletario non appena entra nel mondo del lavoro. Finendo per renderlo un essere privato della sua umanità, estraniato da se stesso e dagli altri per diventare nient’altro che merce tra le merci. “

LEGGERE “Il tramonto dell’Occidente” DI SPENGLER PER CAPIRE LA RUSSIA DI OGGI

Stefano Arcella

FONTE: Centro Studi La Runa

Nel Tramonto dell’Occidente, Oswald Spengler si sofferma ampiamente sulle peculiarità dell’anima russa. Tale analisi è collocata nella seconda parte dell’opera, che si intitola “Prospettive della storia mondiale”, la prima parte essendo dedicata a “Forma e realtà”, ove delinea la sua visione ciclica della storia, definisce l’“anima” di ogni civiltà, con le famose fasi, l’una ascendente (Kultur) e l’altra  discendente (Zivilisation) di ogni ciclo storico, per poi tracciare una morfologia comparata delle civiltà che offre un grande scenario di macrostoria.

Altrettanto interessante e stimolante è l’applicazione del metodo comparativo spengleriano per studiare e decifrare l’affinità morfologica che connette interiormente la lingua delle forme di tutti i domini interni ad una data civiltà, dall’arte alla matematica alla geometria, al pensiero filosofico e al linguaggio delle forme della vita economica, essa stessa espressione di una data “anima”, ossia di un “sentimento del mondo” che contraddistingue un certo tipo di sensibilità.

In questa prospettiva, anche i fatti politici, assumono il valore di potenti simboli; per Spengler occorre saper cogliere che cosa significa il loro apparire, l’ “anima” di cui essi sono espressione.

Nella seconda parte dell’opera, l’Autore colloca lo studio dell’anima russa nel capitolo sulle pseudomorfosi storiche ed è partendo da questa categoria spengleriana che si può comprendere il suo modo di descrivere il mondo russo.

Per spiegare la pseudomorfosi, Spengler parte da una nozione di mineralogia. Egli attinge  ad un fenomeno naturale per spiegare e definire un fenomeno storico, in ciò accogliendo un procedimento di osservazione scientifico-naturalistico tipico di Goethe, al quale esplicitamente si richiama nella prima parte della sua opera.

Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua si infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupate. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo ad altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contraddice  la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto le specie esteriori di un altro. E’ ciò  che i mineralogisti  chiamano pseudomorfosi”.

Dalla nozione di mineralogia passa quindi alle pseudomorfosi storiche.

Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione, ma nemmeno alla perfetta coscienza di sé stessa. Tutto ciò che emerge dalle profondità di una giovane animità va a fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e invece dell’adergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per la costrizione che ancora si subisce da parte di una realtà lontana nel tempo”.

Di questo fenomeno Spengler ci offre vari esempi quali la civiltà araba – che egli fa risalire,  come sentimento del mondo, al III secolo a.C. – che fu costretta e soffocata nelle forme di una civiltà straniera, quale quella macedone col suo relativo dominio (impresa di Alessandro Magno e civiltà ellenistica).

Non è questa la sede per esaminare la pseudomorfosi araba, perché tale tema ci porterebbe lontano, considerando la peculiarità della visione storica spengleriana, rispetto allo specialismo della storiografia occidentale del suo tempo con la quale egli polemizza e argomenta in modo approfondito.

Altra pseudomorfosi è quella che inizia con la battaglia di Azio del 31 a. C.

Qui non si trattò di una lotta per la supremazia della romanità o dell’ellenismo; una lotta del genere era stata già combattuta a Canne e a Ama, ove ad Annibale toccò il destino tragico di battersi non per la sua patria bensì per l’ellenismo. Ad Azio la nascente civiltà araba si trovò di fronte alla civilizzazione antica senescente. Si doveva decidere il trionfo dello spirito apollineo o di quello magico, degli dei o del Dio, del principato o del califfato. La vittoria di Antonio avrebbe liberato l’anima magica; invece la sua sconfitta ebbe per conseguenza che sul paesaggio di tale anima si riaffermarono le rigide, disanimate strutture del periodo imperiale”.

Un ulteriore esempio di pseudomorfosi ce lo offre la Russia di Pietro il Grande. L’anima russa originaria si esprime nelle saghe di Kiev riguardanti il principe Vladimiro (verso il 1000 d. C.) con la sua Tavola Rotonda e l’eroe popolare Ilja di Muros. Qui il pensatore tedesco coglie l’immensa differenza fra anima russa e anima faustina (ossia quella europea tesa verso l’infinito e simboleggiata dalle cattedrali gotiche) nel divario che intercorre fra tali poemi slavi e quelli sincronici – rispetto ad essi – della saga di Malthus e dei Nibelunghi del periodo delle invasioni “nella forma dell’epica di Ildebrando”.

Il periodo “merovingio” russo (ossia il periodo aurorale) inizia con la liberazione dal dominio tartaro di Ivan III (1480) e si sviluppa attraverso gli ultimi Rurik e i primi Romanov fino a Pietro il Grande (1689-1725). Esso corrisponde al periodo che va, in Francia, da Clodoveo(465-511) fino alla battaglia di Testry (687) con la quale i Carolingi si assicurano il potere  effettivo. Spengler coglie qui un’affinità morfologica.

A questo periodo moscovita delle grandi stirpi bojare e dei patriarchi, durante il quale un partito della Vecchia Russia lottò continuamente contro gli amici della civiltà occidentale, segue, con la fondazione di Pietroburgo (1703) la pseudomorfosi, la quale impose all’anima russa primitiva le forme straniere dell’alto Barocco, poi quelle dell’illuminismo e infine quelle del diciannovesimo secolo. Pietro il Grande fu fatale per la civiltà russa. Si pensi alla sua corrispondenza “sincronica”, a Carlomagno, che metodicamente e con tutte le sue energie attuò ciò che Carlo Martello pochi anni prima aveva scongiurato con la sua vittoria sugli Arabi; il sopravvento dello spirito mauro-bizantino”. 

Nella visione spengleriana, Pietro il Grande impone alla Russia una forma che non le è congeniale, che è lontana dallo spirito contadino, antico, mistico e religioso della Vecchia Russia. Carlomagno avrebbe mutuato in Occidente una forma mauro-bizantina (l’Impero, la struttura gerarchizzata sul modello romano-orientale) che non sarebbe stata congeniale all’Europa dell’alto  Medio Evo (adopero questa periodizzazione per farmi intendere, anche se essa non è affatto spengleriana).

Qui lo studioso tedesco introduce una riflessione che è di rilievo centrale e che contribuisce a far comprendere anche la storia della Russia contemporanea.

Lo zarismo primitivo di Mosca è l’unica forma che ancor oggi sia conforme alla natura russa, ma esso a Pietroburgo fu falsato nella forma dinastica propria all’Europa occidentale. La tendenza verso il Sud sacro, verso Bisanzio e Gerusalemme, profondamente radicata in tutte le anime greco-ortodosse, si trasformò in una diplomazia mondana, in uno sguardo rivolto verso l’Occidente … Furono importate arti e scienze tarde, l’illuminismo, l’etica sociale, il materialismo cosmopolita, benché in questo primo periodo del ciclo russo la religione fosse l’unica lingua nella quale ognuno comprendeva se stesso e comprendeva il mondo”.

Questa imposizione di un modello straniero generò un sentimento di odio “davvero apocalittico” contro l’Europa, intendendo con tale termine tutto quanto non era russo, anche Roma e Atene, insomma l’Occidente nella varietà ed anche nell’antichità delle sue manifestazioni.”La prima condizione a che il sentimento nazionale russo si liberi è odiare Pietroburgo con tutto il cuore e con tutta l’anima” scriveva Aksakoff a Dostoevskij.

In altri termini, Mosca è sacra, Pietroburgo è Satana e Pietro il Grande, in una leggenda popolare, viene presentato come l’Anticristo.

Per Spengler, se si vogliono comprendere i due grandi interpreti della pseudomorfosi russa, occorre vedere in Dostoevskij il contadino, in Tolstoj l’uomo cosmopolita.

L’uno non poté mai liberarsi interiormente dalla campagna, l’altro la campagna, malgrado ogni suo disperato sforzo, non riusci mai a ritrovarla”.

Qui la lettura di Spengler diviene dirompente e innovativa, con tratti tipici da “rivoluzione conservatrice”.

Egli considera, infatti, Tolstoi come la Russia del passato e Dostoevskij come simbolo della Russia dell’avvenire, il che equivale a dire che l’anima contadina antica della Russia, l’anima legata al sentimento delle radici e delle tradizioni, rappresenta l’avvenire, mentre lo spirito cosmopolita e illuminista, di stampo occidentale moderno, è destinato a tramontare.

Peraltro, questa spirito cosmopolita era profondamente divorato da un odio viscerale contro un’Europa moderna da cui non poteva liberarsi, essendovi profondamente legato. In altri termini, una sorta di amore/odio verso l’Europa.

Tolstoi odiò potentemente l’Europa da cui non poteva liberarsi. Egli l’odiò in sé stesso e odiò se stesso. Per questo fu il padre del bolscevismo.

Dostoevskij, al contrario, non nutrì un tale odio ma un fervido amore per tutto ciò che è occidentale, nel senso delle antiche radici culturali dell’Europa.

Un simile odio Dostoevskij non lo conobbe. Egli nutrì un amore altrettanto fervido per tutto quello che è occidentale. “Io ho due patrie, la Russia e L’Europa”. Questa affermazione dello scrittore russo è molto sintomatica delle sue inclinazioni. Spengler passa poi a citare un brano del romanzo I Fratelli Karamazov che è molto eloquente circa quello che lo scrittore russo intende per richiamo interiore verso l’Europa.

“Partirò per l’Europa – dice Ivan Karamazov al fratello Alioscia – io so di non andare che verso un cimitero, ma so anche che questo cimitero mi è caro, che è il più caro di tutti i cimiteri. I nostri sacri morti sono seppelliti  là, ogni pietra delle loro tombe parla di una vita passata così fervida, di una fede così appassionata nelle azioni che hanno compiute, nelle loro verità, nelle loro lotte e nelle loro conoscenze che io, lo so di già, mi prosternerò per baciare quelle pietre e per piangere su di esse

 L’Europa, per Dostoevskij, è quella delle radici antiche, della memoria storica, dell’identità, degli avi, delle antiche fedi e delle antiche lotte. In altri termini, l’Europa non è quella dell’illuminismo cui guardava Pietro il Grande, ma esattamente il contrario.

Mentre Tolstoi si muove nell’ottica dell’economia politica e dell’etica sociale, in una dimensione intellettualistica, tipicamente occidentale e moderna, Dostoevskij era al di là delle categorie occidentali, comprese quelle di rivoluzione e di conservatorismo.

Per lui fra conservatorismo e rivoluzione – scrive Spengler – non vi era differenza alcuna: entrambi erano per lui fenomeni occidentali. Lo sguardo di una tale anima si librava di là da tutto quanto è sociale. Le cose di questo mondo gli apparivano così insignificanti, che egli non dette alcuna importanza al tentativo di migliorarle. Nessuna vera ragione vuole migliorare il mondo dei fatti. Come ogni vero Russo, Dostoevskij un tale mondo non lo nota affatto: gli uomini come lui vivono in un secondo mondo, in un mondo metafisico esistente di là da esso. Che cosa hanno a che vedere i tormenti di un’anima col comunismo?” 

Spengler conclude asserendo che “il Russo autentico è un discepolo di Dostoevskij benché non lo abbia letto, anzi proprio perché non sa leggere. Lui stesso è un pezzo di Dostoevskij.

Per Spengler il cristianesimo sociale di Tolstoi era intriso di marxismo; Tolstoi parlava di Cristo ma intendeva Marx, mentre “al cristianesimo di Dostoevskij appartiene invece il millennio che viene”

L’analisi spengleriana si proietta nel futuro, anticipando di circa un secolo gli sviluppi della storia russa, in un momento storico in cui trionfava il bolscevismo e tutto sembrava andare in direzione contraria. Il punto è capire cosa intenda Spengler per “cristianesimo  di Dostoevskij”. Lo studioso tedesco ha fatto riferimento a questa vocazione mistica che trascende il mondo dei fenomeni, dei fatti, ai quali l’anima russa non attribuisce un valore decisivo, il mondo metafisico essendo l’oggetto di interesse centrale e prioritario.

L’immensa differenza fra anima faustiana e anima russa si tradisce già nel suono di certe parole.  Il termine russo per cielo è njèbo ed è negativo nel suo n. L’uomo d’Occidente volge il suo sguardo verso l’alto, mentre il Russo fissa i lontani orizzonti. Occorre dunque vedere la differenza dell’impulso verso la profondità dell’uno e dell’altro nel fatto che nel primo esso è una passione di penetrare da ogni lato nello spazio infinito, nel secondo è un esteriorizzarsi fino a che l’elemento impersonale nell’uomo si faccia uno con la pianura senza fine…La mistica russa non ha nulla di quel fervore, proprio al gotico, a Rembrandt, a Beethoven, che si porta verso l’alto e che può svilupparsi fino ad un giubilo che invade il cielo. Qui Dio non è la profondità azzurra delle altezze. L’amore mistico russo è quello della pianura, quello verso fratelli che subiscono lo stesso giogo, sempre nella direzione terrestre; è quello per i poveri animali tormentati che vagano sulla terra,  per le piante, mai per gli uccelli, per le nubi e per le stelle”.

Il cristianesimo russo-ortodosso è, dunque, per Spengler, un misticismo della Madre Terra, dell’immensa pianura, degli spazi sconfinati.

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LEGGERE OGGI SCHOPENHAUER PER CAPIRE L’ATTUALITÀ

Arthur Schopenhauer è stato un vero europeo e un autentico filosofo. Anche se dovette aspettare molti anni prima che gli venissero riconosciuti i dovuti meriti quando pubblicò il suo opus magnum Die Welt als Wille und Vorstellung (1819). Stesso discorso per un’altra sua celebre opera Parerga und paralipomena. Kleine philosophische Schriften. L’originalità e la forza radicale delle sue idee lontano dalle accademie lo portarono a sviluppare nel tempo una weltanschauung che influenzò molto il pensiero di personalità come Richard Wagner, Friedrich Nietzsche che lo definiva il suo «pedagogo», Tolstòj che equiparò l’insegnamento schopenhaueriano a quello del Buddha. Per questo motivo possiamo definire la sua filosofia come un «buddismo tedesco». Tant’è che lui stesso si identificava nella vita e nella figura del Buddha.

«A diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto del mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me».
(A.Schopenhauer, Il mio Oriente)

Schopenhauer segnò uno squarcio nel pensiero e nella filosofia. Sostenendo che l’essenza ultima dell’universo è la voluntas o volontà-di-vivere. Questa volontà è un infinito desiderio «tantalico» cieco, spietato, infinito, inconscio e irrazionale. Un altro aspetto fondamentale all’interno della weltanschauung schopenhaueriana è quella reminiscenza atta a riappropriarsi di una dimensione interiore dell’anima propriamente indo-europea. Per questo motivo l’ho voluto definire «vero europeo», a differenza dei suo colleghi filosofi che erano rimasti prigionieri dell’anima galilea e di un tipo di moralità giudaico-cristiana, muovendo tutte le loro speculazioni a partire dal mondo abramitico. Schopenhauer se ne liberò una volta per tutte, escludendole dalla sua filosofia. Sviluppando un’etica e una metafisica che attinge dalla filosofia moderna germanica di Immanuel Kant, quella greca antica di Platone e infine dalla mistica orientale del Buddismo e del Vedānta. Ammirava molto anche Meister Eckhart in quanto «asceta autentico», affermando che le omelie che pronunciava il domenicano tedesco fossero le stesse del Buddha. Leggere oggi Schopenhauer, in particolare il IV libro del Mondo come volontà e rappresentazione qui presentato nell’edizione del 1915, significa riconoscere la perenne attualità del suo pensiero e della sua scelta, che ebbe straordinarie ripercussioni nella storia del pensiero fino ai giorni nostri, ora che «Dio è morto» e la secolarizzazione ha divorato le società aperte laiche. Nella sua metafisica, ritornando alle parole di Tolstòj e sull’influenza dei suoi «maestri» sopra citati, possiamo trovare una similitudine tra la filosofia di Schopenhauer nel concetto di Weltschmerz entro il quale si può incasellare l’intero pensiero schopenhaueriano e quello buddista di Duḥkha. Entrambi i concetti si concentrano sul significato di dolore. Da qui la grande domanda che lo aveva spinto a fare filosofia: perché esistono il dolore e la sofferenza nel mondo? Nel 1811, la madre di Schopenhauer temeva che il figlio volesse studiare filosofia; per questo motivo chiese a Martin Wieland di parlargli per cercare di convincerlo a indirizzare la sua vita e il suo futuro a una carriera più remunerativa della filosofia. Wieland parlò con Schopenhauer e gli chiese il motivo della sua scelta. La sua risposta delineerà tutto il suo intero pensiero: «Guardi, la vita è cosa incerta e miserevole: ho deciso di consacrare la mia a riflettere su questo concetto». Da questa constatazione deriva il suo «pessimismo cosmico» definendo il nostro mondo «il peggiore dei mondi possibili», «valle di lacrime», «colonia penale» nel quale gli esseri patiscono per tutta la loro esistenza solo dolore e sofferenze. Dolore e sofferenze causate dalla voluntas come volontà-di-vivere nel suo infinito desiderare senza meta o fine ultimo ma solo una perenne noia e insoddisfazione. A questo punto Schopenhauer si fa un’altra domanda: come si possono alleviare gli infiniti dolori e sofferenze dell’esistenza? La risposta a questa domanda la trova partendo dalla constatazione che, se tutti soffrono, il proprio dolore è direttamente proporzionale a quello degli altri. In questo modo si capisce di essere tutti «sulla stessa barca» e quindi attraverso il proprio dolore esistenziale capire l’altro e sviluppare proprio grazie ad esso una pietà e compassione universale dove la voluntas si trasforma in noluntas o negazione della volontà-di-vivere. Il che ricorda molto quella praticata dai jainisti indiani. L’insegnamento schopenhaueriano rivela come abbiamo già detto una profonda affinità con le Upaniṣad. Schopenhauer stesso disse che la scoperta delle Upaniṣad era state l’unica consolazione della sua vita. In questo senso Schopenhauer è un vero e proprio «rinnovatore spirituale» quando afferma:

«In India, le nostre religioni non attecchiranno mai; l’antica saggezza delle razze umane non sarà oscurata dagli eventi in Galilea. Al contrario, la saggezza indiana fluirà indietro verso l’Europa, e produrrà cambiamenti fondamentali nel nostro pensiero e nelle nostre conoscenze».

Tale influsso spirituale della sua weltanschauung alla fine del XIX secolo era così forte che alcuni lo definirono il «Buddha di Francoforte». Leggendo il testo qui presentato di Schopenhauer si possono riscontrare l’attualità delle sue concezioni etiche e morali. Schopenhauer dava grandissima importanza all’elevazione spirituale e l’ascesi a differenza di quelli che lo presentano come un ateo materialista che non credeva in niente. L’ascesi permette di contemplare la kalokagathia nelle sue forme più nobili e pure. Insieme all’ascesi, vedeva la musica e l’arte come eccellenti lenitivi a tutti i dolori e sofferenze dell’uomo. Il messaggio schopenhaueriano oggi potrebbe servire come antidoto alla postmodernità e a certe frivolezze della società contemporanea.

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INTERVISTA A BRUNO CESARE ANTONIO SEBASTIANI

La visione antropocentrica, che sancisce il primato dell’uomo centro dell’universo è la teoria dominante della modernità. Riccardo Tennenini intervista un autore che per la sua posizione può di buon grado essere definito contro-corrente.

L’offensiva a questa visione antropocentrica è proposta nella trilogia di Bruno Cesare Antonio Sebastiani. Per tentare di contrastarla occorre un certo coraggio, perché si viene facilmente criticati. Secondo noi è giusto concedere spazio ad un pensiero come quello di Sebastiani per comprendere al meglio l’attuale situazione umana globale.

Questa trilogia di saggi (“Il Cancro del Pianeta”, “Il Cancro del Pianeta Consapevole” e “L’impero del Cancro del Pianeta – L’organizzazione della società ai tempi dell’ecocidio”) ripercorre le tappe tragiche di un umanaio sempre più violento in guerra contro se stesso e il mondo che lo circonda. Viene così enunciata per la prima volta da Sebastiani la dottrina tanto provocatoria quanto radicale dell’uomo come “cancro del pianeta”.

Iniziamo subito. Di cosa parla questa dottrina enunciata nella trilogia?

Il punto di partenza delle mie riflessioni è tanto semplice quanto banale e si può riassumere in due constatazioni di per sé evidenti:

l’uomo è l’essere più intelligente del Pianeta e in virtù di questa sua caratteristica ha sottomesso ogni altra realtà del regno minerale, vegetale e animale;

l’armonia degli elementi del Pianeta è gravemente compromessa, tanto che i potenti del mondo continuano a riunirsi in cerca di rimedi a una crisi che appare di soluzione assai difficile, se non impossibile.

Così come 2 + 2 fa 4, appare quindi palese che quella caratteristica che ci ha consentito di sottomettere ogni regno della natura è anche la responsabile del dissesto planetario che stiamo vivendo.

L’articolo di presentazione del mio primo libro (“Il Cancro del Pianeta”, Armando Editore, 2017) inizia con queste parole:

“E se la nostra intelligenza anziché essere una scintilla divina o una mirabile opera della natura (a seconda che ci si riconosca nel creazionismo o nell’evoluzionismo) fosse un tragico errore del processo evolutivo della vita, una via “svantaggiosa” imboccata casualmente da madre natura che ben presto l’abbandonerà per far ritorno a forme di vita meno distruttive per l’ambiente?” (qui l’articolo completo)

Da queste prime constatazioni prende avvio il dipanarsi del discorso che scorge impressionanti similitudini con quanto accade in un organismo ammalato di cancro. Le cellule sane si trasformano in cellule tumorali maligne a seguito di casuali alterazioni genetiche, e così anche i più recenti studi neurologici ci dicono che all’origine dell’abnorme evoluzione del nostro cervello vi sarebbero alterazioni altrettanto casuali di alcuni geni cerebrali.

Verificatesi tali alterazioni (la “carcinogenesi”) il processo diviene irreversibile ed è connotato da quattro tappe, del tutto analoghe sia nel cancro dell’uomo sia in quello del pianeta:

1. crescita rapida e incontrollata delle cellule tumorali maligne

2. invasione e distruzione dei tessuti sani adiacenti

3. de-differenziazione, ovvero l’omologazione globale delle cellule

4. metastasi a diversi siti

Ognuno può facilmente riconoscere in questi quattro passaggi i momenti essenziali del processo di antropizzazione del Pianeta, avviato su vasta scala alcuni millenni or sono ma covato a lungo nei meandri della preistoria.

Per ogni approfondimento si veda l’articolo “La de-differenziazione, ovvero l’omologazione globale delle cellule”.

Una volta acclarata la similitudine, è giocoforza ribaltare l’intera storia del genere umano, condannando come “contro natura” il mito progressista che ci sta conducendo allo sfacelo.

Una precisazione. Ai tre testi citati, quest’anno se ne è aggiunto un quarto, “Rivelazione – Discorso alle cellule malate”, che intende attirare l’attenzione dei lettori sul fatto che quell’intelligenza che ci ha consentito di sederci sul trono di re del mondo, è comunque limitata rispetto alla vastità e alla complessità del cosmo, motivo per cui è stata in grado di alterare l’equilibrio naturale tra gli elementi ma non è in grado di ricomporne uno di tipo artificiale altrettanto stabile e duraturo.

Rousseau affermava che l’uomo è buono per natura, il cosiddetto “buon selvaggio” ed è la società che lo corrompe facendolo diventare cattivo. Secondo lei aveva ragione Rousseau oppure, l’uomo è naturalmente cattivo per necessità di sopravvivenza?.

SUPPORTA LA VERA CONTROCULTURA

Uno dei primi postulati del Cancrismo (nome che ho dato alla mia dottrina) è che non dobbiamo giudicare quanto accaduto col metro dell’etica umana. Qui non ci sono buoni o cattivi. Ciò che è accaduto è accaduto per caso. Non vi è stato alcun peccato originale né alcuna colpa. Da questo punto di vista concordo con le tesi esposte da Monod ne “Il caso e la necessità”. Ho approfondito questi concetto nell’articolo “Il caso e la colpa”.

Per tornare a Rousseau, a mio avviso il selvaggio è stato “buono” (nel senso di ossequiente alle leggi di natura) sino a quando l’evoluzione del suo cervello non superò quella soglia di “capacità elaborativa” che gli permise di contravvenire alle leggi di natura. Poi, con estrema gradualità, iniziò a trasformarsi in cellula tumorale della biosfera.

Molti movimenti ecologisti radicali, come gli anarco-primitivisti, pensano che solo con un ritorno a uno stadio pre-agricolo l’uomo potrebbe scongiurare il pericolo di un ecocidio globale. Secondo lei è giusto e possibile una cosa del genere?

Ho dedicato il mio libro “L’Impero del Cancro del Pianeta” a questo problema. Per nutrire il numero di cellule-uomo accresciutosi in modo “rapido e incontrollato” a seguito della già citata abnorme evoluzione del cervello (la carcinogenesi), Homo sapiens ha dovuto costruire una macchina sociale ultra complessa i cui ingranaggi sono strettamente connessi gli uni con gli altri. Non vi è solo l’esigenza primaria di sfamare gli otto miliardi di esseri umani ormai presenti sul Pianeta, ma anche quella di trovare il cibo per i quasi trenta miliardi di animali segregati negli allevamenti intensivi (terrestri e acquatici) e l’energia per “nutrire” l’infinito numero di macchine e dispositivi costruiti nell’illusione di poter governare il mondo più efficacemente e senza fatica. Queste esigenze hanno comportato un iper-sfruttamento del suolo, e quindi la deforestazione, la desertificazione ecc. ecc. Senza un’agricoltura ultra intensiva non potremmo sfamare né animali né uomini. Bloccare anche solo uno degli ingranaggi della macchina che tiene in piedi l’impero del cancro del pianeta significherebbe far crollare l’intera impalcatura sociale. Pensiamo a cosa avverrebbe se venisse a mancare il carburante per i mezzi di trasporto o l’energia elettrica o il gas con cui scaldiamo le nostre case. Il sistema è sicuramente sventurato, ma la sua distruzione comporterebbe disastri immani. Questi avverranno quando la Natura ci presenterà il conto per il sontuoso banchetto effettuato a sue spese, ma il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di ritardarli, non di anticiparli.

Quale soluzione alternativa proporrebbe lei per salvare il Pianeta Terra dalla furia dell’uomo? 

Giunti al punto in cui siamo, temo che soluzioni vere non esistano. La Natura ci distruggerà e poi ricomincerà il suo lento lavoro sotterraneo. Forse appariranno nuove forme di vita, forse non su questo pianeta. Ma, poiché noi viviamo qui e ora, è giusta la domanda e non intendo sfuggirvi. Dirò allora che, come agli ammalati di cancro in fase terminale non si negano le cure palliative, così alla nostra Terra (l’organismo vivente che ci ospita e che noi stiamo distruggendo) dovremmo garantire una minor sofferenza attraverso una opportuna decrescita dei consumi e del ritmo di sviluppo economico che ossessiona il nostro tempo. Vedo di buon occhio ogni comportamento virtuoso in tal senso, sia a livello individuale sia a livello sociale. Ma qui è importante sottolineare un aspetto della dottrina cancrista. L’ho esplicitata essenzialmente per amore di verità. Ma nel teorizzarla mi sono anche reso conto che l’uomo contemporaneo non è disposto a modificare spontaneamente le sue abitudini. Solo i rivolgimenti tellurici possono indurlo a farlo o, forse, una “rivelazione” particolarmente violenta, come quella di essere paragonato a una cellula cancerogena. Quanti più saremo a professare tale dottrina, tante più persone forse modificheranno il proprio dissennato comportamento. Almeno me lo auguro.

Come ultima domanda le chiedo quale è il messaggio che vuole dare a tutti i nostri lettori? Io la ringrazio per la disponibilità e partecipazione, consigliando l’acquisto dei suoi libri, le do appuntamento alla prossima occasione di incontro.

Non date per scontato ciò che i maggiori “maître à penser” e la stragrande maggioranza del genere umano ha sempre sostenuto, a partire dai seguaci di Socrate fino ai grandi scienziati contemporanei. Ragionate con la vostra testa. Guardate la bruttezza del mondo moderno. Salite su un aereo e osservate come i campi sottostanti, già spogliati del manto della foresta primordiale, siano ora deturpati da un’infinità di colate di cemento. Considerate quale sia la causa di tanta devastazione e come la stessa metta a rischio la sopravvivenza stessa della vita sul Pianeta. Ecco, a questo punto siete già pronti per convertirvi al Cancrismo.

Non è facile condensare nel breve spazio di un’intervista tutti i concetti elaborati in anni di speculazione. Mi limiterò pertanto a invitare chi volesse approfondire l’argomento a visitare il sito de Il Cancro del Pianeta, dove sono raccolti tutti i contributi teorici miei e di altri studiosi, e il blog omonimo.

Inoltre segnalo che è appena uscito un altro volume sul Cancrismo, “Pensieri Eretici”. In tale opera ho raccolto gli ottanta articoli che ho scritto negli ultimi quattro anni per approfondire i singoli aspetti della dottrina. L’opera di “dissacrazione” dell’ortodossia progressista richiede l’impegno di vaste schiere di uomini di buona volontà. Io ho tentato di avviare l’opera. Mi auguro che molti si incamminino su questa strada.

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SCHOPENHAUER: PERCHÈ PIANGIAMO?

Arthur Schopenhauer

Fonte: Il mondo come volontà e rappresentazione

Traduzione di: SavjLopez, Paolo e De Lorenzo, Giuseppe

Qui è pure il luogo di spiegare un’altra delle più sorprendenti proprietà dell’umana natura, il pianto, il quale, come il riso, appartiene alle manifestazioni ond’è l’uomo distinto dall’animale. Il piangere non è punto, senz’altro, espressione del dolore: imperocché i dolori pei quali si piange sono i meno. Anzi, secondo me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì sempre per il riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore provato, pur quand’è corporale, si passa a una pura rappresentazione di esso, e si trova allora sì compassionevole il proprio stato, che, se altri fosse a soffrire, siamo fermamente e sinceramente persuasi che l’aiuteremmo con tutta pietà e amore. Ma intanto siamo noi stessi l’oggetto di quella nostra sincera pietà: col più soccorrevole animo sentiamo d’essere proprio noi i bisognosi d’aiuto; si sente di patir più di quanto potremmo resistere a veder patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea. Il pianto è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza.

Perciò esso ha per condizione la capacità dell’amore e della compassione, e la fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto vien’anzi ognora considerato come segno d’un certo grado di bontà del carattere, e disarma l’ira, perché si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d’amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento, descrive l’origine delle sue lagrime: I’ vo pensando: e nel pensar m’assale Una pietà sì forte di me stesso, Che mi conduce spesso Ad alto lagrimar, ch’i’ non soleva. Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la rappresentazione di esso.


Quando noi non siam mossi al pianto da nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade perché vivacemente ci mettiamo con la fantasia al posto di chi soffre, oppure nel suo destino scorgiamo la sorte dell’umanità intera e quindi principalmente di noi stessi; e così per un ampio giro pur sempre veniamo a piangere su di noi, di noi abbiam pietà. Questo sembra anche essere il motivo principale del comune, e quindi naturale, pianto nei casi di morte.

Chi piange un morto non piange ciò che ha perduto; che si vergognerebbe di lagrime sì egoiste; mentre invece a volte si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la sorte del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a lunghe, gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe adunque compassione per il desti-no dell’umanità intera, la quale è in potere d’un fato di morte, in cui ogni vita per quanto attiva e spesso ricca d’azioni dovrà spegnersi e ridursi al nulla.

E in questo fato dell’umanità egli vede soprattutto il fato proprio: tanto più, quanto più vicino era a lui il morto: più che mai, quanto il morto era suo padre. Fosse pure a quest’ultimo per età e malattia divenuta un tormento la vita, fosse pure il padre nel suo stato d’impotenza ridotto un carico grave per il figlio, questi piange pur sempre viva-mente la sua morte: per il motivo che s’è detto.

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L’INFLUENZA DELLE CAUSE MORALI E IL SUO LIMITE

David Hume

Fonte: Saggi morali, politici e letterari, I, XXI, in Saggi e Trattati morali letterari politici e economici, pp. 391-95, 399-400)

Per quanto riguarda le cause fisiche, sono propenso a dubitare del tutto che esse operino in questo caso particolare, né ritengo che gli uomini debbano qualcosa del loro temperamento e del loro talento all’aria, al nutrimento o al clima. Riconosco che, a prima vista, l’opinione contraria può giustamente apparire probabile, giacché troviamo che le circostanze fisiche esercitano un’influenza su ogni altro animale e che anche gli esseri viventi adatti a vivere in tutti i climi – come cani, cavalli ecc. – non raggiungono in tutti i climi la stessa perfezione. Il coraggio dei bulldogs e dei galli da combattimento sembra peculiare all’Inghilterra, mentre la Fiandra è famosa per i suoi cavalli grandi e pesanti e la Spagna per i suoi cavalli leggeri e di grande foga.

E una razza qualsiasi di questi animali, trasferita da un paese a un altro, perderà ben presto le qualità che derivano appunto dal clima in cui è nata. E allora si può domandare: perché non sarà altrettanto anche per gli uomini? Vi sono poche questioni più singolari di questa o che si incontrino più spesso nelle ricerche riguardanti il mondo dell’uomo; e perciò può valere la pena di farne un esame approfondito. La mente umana è di natura spiccatamente imitativa; e non è possibile per un gruppo qualsiasi di uomini conversare spesso tra loro senza acquisire una somiglianza di modi e senza che si trasmettano l’un l’altro vizi e virtù. L’inclinazione a stare in compagnia e in società è forte in tutti gli esseri razionali, e la stessa disposizione che ci conferisce quest’inclinazione ci fa entrare profondamente gli uni nei sentimenti degli altri e fa sì che passioni e inclinazioni del genere si propaghino, come per contagio, a tutti coloro che fanno parte del gruppo.

Quando numerosi uomini sono uniti in un corpo politico, le occasioni di relazione tra loro debbono essere così frequenti, sia per la difesa sia per il commercio e per il governo, che, insieme con la stessa parlata o lingua, essi devono acquisire una certa somiglianza nei loro modi abituali di comportarsi e avere un carattere comune o nazionale, così come hanno un carattere personale, peculiare a ciascun individuo. Ora, sebbene la natura produca in grande abbondanza tutti i generi di temperamento e di intelligenza, non ne deriva che essa li produca sempre nella stessa proporzione e che in ogni società gli ingredienti dell’industriosità e dell’indolenza, del coraggio e della viltà, dell’umanità e della brutalità, della saggezza e della stoltezza siano mescolati nello stesso modo. Nell’infanzia della società, se una di queste disposizioni si troverà in maggiore abbondanza delle altre, prevarrà naturalmente nella composizione e darà una coloritura al carattere nazionale.

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O bisognerebbe sostenere che non si può ragionevolmente presumere che una specie di temperamento abbia la prevalenza, nemmeno in queste società ristrette, e che pertanto la mescolanza di caratteri conserverà sempre le stesse proporzioni; tuttavia è certo che non si può sempre presumere che le persone di credito e di autorità, che formano un corpo ancora più ristretto, siano dello stesso carattere; e la loro influenza sul modo di comportarsi del popolo deve, in ogni tempo, essere molto considerevole. […] Qualunque sia l’elemento che forma i modi abituali di vivere di una generazione, la più vicina a quella deve assorbire una sfumatura più intensa dello stesso colore, poiché gli uomini sono più suscettibili di tutte le impressioni durante l’infanzia e ritengono queste impressioni per tutto il tempo in cui stanno al mondo. Affermo allora che tutti i caratteri nazionali, se non dipendessero da cause morali fisse, procederebbero da accidenti del genere di quelli ricordati e che le cause fisiche non operano in modo discernibile sulla mente umana. Ed è una massima in ogni filosofia che le cause che non si manifestano devono essere considerate come non esistenti. Se scorriamo sul mondo o se consideriamo gli annali della storia, scopriremo ovunque segni di una simpatia o contagio tra i modi abituali di vivere, non quelli dell’influenza dell’aria o del clima. […] Se i caratteri degli uomini dipendessero dall’aria e dal clima, i gradi di caldo e di freddo dovrebbero naturalmente avere un’influenza rilevante; infatti nulla esercita un effetto più rilevante su tutte le piante e sugli animali irrazionali. In verità vi sono ragioni per pensare che tutte le nazioni che vivono ai circoli polari o ai tropici siano inferiori al resto della specie; e incapaci di tutte le più alte conquiste della mente umana. La povertà e la miseria degli abitanti delle regioni nordiche del globo e l’indolenza degli abitanti delle regioni meridionali che deriva dalle loro scarse necessità, possono forse rendere ragione di questa notevole differenza, senza far ricorso alle cause fisiche. Tuttavia è certo che i caratteri delle nazioni sono molto promiscui nei climi temperati, e che quasi tutte le osservazioni generali fatte sui popoli che si trovano più a sud o più a nord in questi climi, sono incerte e fallaci.

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