RECENSIONE HOSTILES – OSTILI

Giovanni Becciu

Perché, per il cinema americano, la colpa ricade sempre e solo sull’uomo bianco, invariabilmente dipinto come un malvagio colonialista? Molto mi ha fatto riflettere in proposito la visione del film “Hostiles”, di Scott Cooper, nella cui visione mi sono imbattuto casualmente in un’afosa sera di agosto, dopo aver posto a me stesso una domanda sin troppo banale: “perché non concedere una possibilità anche ad un western di nuova generazione?”

Avvertendo in anticipo della presenza di spoiler nel prosieguo di questa recensione, parto con l’ammettere che, per una buona mezz’ora, il film mi è piaciuto. Il dispiegarsi della trama comincia con un assalto ad una famiglia di coloni da parte di una banda di pellirossa, fatto questo che – per la cronaca – accadeva assai di frequente, ma che nel nome del politicamente corretto nessuno avrebbe mai il coraggio di riportare. Nell’assalto muoiono – brutalmente trucidati – il capofamiglia, soggetto addirittura alla feroce pratica del taglio dello scalpo, due bambine di circa dodici anni, ed un neonato. Il regista, in una scena spiazzante per la sua crudezza, ha – a mio avviso – il merito di mostrare senza blandizie tutta la violenza perpetrata dai pellirossa ai danni dei coloni bianchi; come non menzionare, ad esempio, la terribile immagine della madre che si salva scappando e nascondendosi, senza accorgersi della morte – causata da un colpo di pistola – del figlioletto neonato.

La trama salta dunque in New Mexico, altra celeberrima località del selvaggio West, dove un gruppo di soldati sta dando la caccia ad una famiglia di indiani, fuggiti dalla riserva dove si trovavano confinati. Una volta catturati i fuggiaschi – adeguatamente legati ed insultati – vengono questi ultimi trasferiti nelle vesti di prigionieri presso un tipico forte di frontiera (Fort Berringer), ai quali negli anni Settanta ci hanno abituati gli assai più gradevoli film di John Wayne. Ad attendere il capitano dell’esercito Joseph Blocker (interpretato da un fenomenale Christian Bale) l’ordine di condurre un vecchio capo indiano morente e la sua famiglia nella loro terra natia. In una scena assai ben fatta, il succitato capitano – che odia i nativi con tutto sé stesso – rifiuta di eseguire il comando impartitogli, poiché il capo indiano, prima di essere catturato, si era già reso responsabile in passato della morte di numerosi suoi commilitoni. Nonostante l’ostinata pervicacia dell’ufficiale, la composita carovana di pellirossa e “visi pallidi” parte comunque alla volta del Montana, dove è situata appunto la “Valle degli orsi”, terra d’origine della famiglia indiana scortata.

In un ulteriore salto di trama, il convoglio raggiunge casualmente le prossimità della casa incendiata della famiglia di coloni introdotta all’inizio, rinvenendo il corpo trucidato del capofamiglia appena fuori le rovine dell’abitazione. Entrato all’interno, il gruppo trova – ai piedi del letto – anche sua moglie Rosalie Quaid (una magistrale Rosamunde Pike) con ancora in braccio il cadavere del figlioletto neonato, accanto a lei le povere salme delle due bambine. Il capitano comprende immediatamente la situazione, e cerca di mostrarsi accondiscendente con la donna traumatizzata, che invoca silenzio perché, così implora, “i bambini stanno dormendo”. Fatto ritorno al modesto accampamento, alla vista degli indiani la donna scoppia comprensibilmente in una crisi di pianto, ma mentre l’atteggiamento del capitano nei confronti dei nativi si indurisce ulteriormente a motivo delle atrocità di cui è stato testimone, i pellirossa – da parte loro – provano ad essere gentili, e ad instaurare un contatto con la sopravvissuta devastata dal dolore.

Da qui in avanti, assistiamo ad un emergere sempre più marcato del senso di “white guilt” che caratterizza, come menzionavo in apertura, tanta parte della cinematografia statunitense. Incontriamo, infatti, un sergente ex-confederato che domanda perdono agli indiani per quello che hanno subito per mano delle proprie truppe, un gruppo di cacciatori che rapisce e violenta la donna bianca – che nel frattempo, dimentica dei lutti e del rancore, aveva fraternizzato con i pellirossa – e le indiane della comitiva, ed un proprietario terriero che, con il supporto dei propri figli, si oppone alla sepoltura del capo nativo nella sua proprietà.

Una sparatoria deflagra a rappresentare l’apice della trama: muoiono quasi tutti gli indiani – tranne un bambino – e quasi tutti i bianchi, tranne il capitano e Rosalie; muoiono anche il proprietario terriero – ucciso a coltellate dall’ufficiale – e tutti i suoi figli. Segue un finale ipocritamente “strappalacrime”, con il capitano, la donna, ed il piccolo indiano uniti partendo insieme in treno, diretti verso un futuro rifulgente. Come abbiamo visto, dopo “Balla coi lupi” anche questo “Hostiles” si colloca nel consueto filone artistico accusatorio e critico nei confronti del mondo bianco e della sua storia, e non fosse per la prima, meravigliosa, mezz’ora, ben poco in quest’opera troveremmo da salvare.

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LA NOTTE DEL GIUDIZIO PER SEMPRE…CONTRO L’UOMO BIANCO

Giovanni Becciu

Quando il cinema è mezzo di propaganda per l’odio verso l’uomo bianco.

Apprestandovi a leggere questa “recensione”, vi consiglio ovviamente di aspettarvi anticipazioni sulla trama del film. Che dire: quest’ultimo episodio – diretto da Everardo Gout – della saga cinematografica di “La notte del giudizio” (The Purge è il titolo originale in lingua inglese), ci si mostra palesemente come un vero e proprio manifesto politico diretto contro “l’uomo bianco”, volto a mettere in scena un’odiosa estremizzazione nei confronti dei “cattivi bianchi razzisti”.

Il volgere della trama ha luogo in Texas, Stato fra i più conservatori dell’Unione, che alle ultime elezioni presidenziali ha con forza confermato il proprio supporto al Presidente Donald Trump. Al corso della consueta notte di “sfogo” annuale, una grande massa di individui – rappresentati omogeneamente come bianchi bifolchi – sceglie di proseguire a tempo indeterminato lo “sfogo” stesso, seguitando a ripulire le strade da neri, messicani e meticci. A queste ultime categorie ed ai sostenitori delle stesse appartengono ovviamente tutti i personaggi positivi: una coppia di messicani – marito e moglie – rifugiatisi negli Stati Uniti dopo aver preso parte in Patria alla lotta contro i cartelli del narcotraffico, una famiglia borghese bianca messa in salvo dai succitati messicani, un uomo nero resosi responsabile del salvataggio della donna messicana, aggredita da uno stereotipato bianco con tanto di svastica tatuata in faccia, i cittadini messicani tutti considerati come un unicum, che per pura bontà d’animo si adoperano per soccorrere i bianchi americani, un capo indiano che – criticando ampiamente il muro costruito dal Presidente Trump – guida verso il confine un gruppo misto di messicani e bianchi, ravvedutisi circa la bontà e la bellezza della società multirazziale.

Se tutti costoro appaiono essere “i buoni”, è assai facile immaginarsi chi possano essere “i cattivi”: un gruppo di lavoratori bianchi scontenti che – vestitisi da cowboy – cercano di attuare la propria vendetta nei confronti della succitata famiglia borghese, numerosi esaltati – sempre bianchi – che sparano nel mucchio, il succitato nazistoide con la svastica sul volto, gli appartenenti al movimento dello “sfogo per sempre” – ovviamente tutti bianchi anch’essi – ritratti omogeneamente come biondi e “razzisti bifolchi” (definizione usata letteralmente nel film dal summenzionato borghese liberal).

Il finale del film è chiaramente prevedibile: i “cattivoni” bianchi vengono massacrati dalla composita compagine multirazziale, e tutti i vincitori riparano con successo in un accogliente Messico, dove trovano ad attenderli soccorso, cure ed accoglienza. Che dire, ancora? Nel contesto attuale della cultura statunitense, la produzione di una simile opera cinematografica può significare soltanto una cosa: è aperta la caccia a tutti quei bianchi determinati a non piegarsi ai dogmi della società multietnica e del globalismo, ed al pensiero dominante. Se persino il Messico – Nazione notoriamente preda di sanguinosissimi contrasti di ogni genere – giunge ad esser rappresentato come l’idealtipo di un “nuovo sogno americano”, beh, veramente resta ben poco da aggiungere.

Quanta pochezza, signori. Quanto odio verso l’uomo bianco.