SAVILE TOWN È QUESTO IL FUTURO DELLE PICCOLE CITTÀ EUROPEE?

Sue Reid

FONTE: Daily Mail

Dalla finestra del suo appartamento che si affaccia sul canale in un sobborgo di Dewsbury nello Yorkshire, una donna bionda guarda due figure femminili che passano mentre chiacchierano in una lingua straniera.

Entrambe le passanti sono coperte da abiti islamici neri, solo uno scorcio dei loro occhi si intravede dall’apertura di due centimetri nei veli che coprono i loro volti.

Loro, come molte donne musulmane che vivono qui, parlano poco o niente inglese. Molte di loro non avranno alcun contatto con persone di un’altra religione o cultura. Molte, immagino, sono state portate nel Regno Unito per sposare gli uomini britannici di origine sud asiatica che hanno fatto di questa zona la loro casa.

Le mogli hanno vite limitate: crescono i bambini, cucinano per le famiglie, o vanno agli eventi per sole donne nell’enorme moschea locale gestita dai Deobandi, una potente setta dell’Islam i cui predicatori più espliciti hanno esortato i seguaci a non mescolarsi con cristiani, ebrei o indù.

Siamo a Savile Town, una delle parti più razzialmente omogenee della Gran Bretagna: non perché tutti sono uomini o donne indigeni dello Yorkshire, ma esattamente il contrario.

Infatti non ci sono quasi residenti bianchi a Savile Town. Sorprendentemente, una ripartizione dettagliata dell’ultimo censimento del 2011 ha registrato che solo 48 delle 4.033 persone che vivono qui erano bianchi britannici.

Questo non sorprenderebbe la bionda Lorraine Matthews, che guarda le signore in burka dalla sua finestra. Lei è una receptionist dentista di 53 anni, una delle poche inglesi bianche rimaste nel reticolo di strade a terrazza di Savile Town. Quasi tutti gli altri residenti, secondo il censimento, hanno origini pakistane o indiane.

I loro antenati furono attirati a Savile Town come manodopera a basso costo per i lavori massacranti nelle fabbriche di lana che avevano reso Dewsbury una rinomata città tessile.

Questi laboriosi nuovi arrivati comprarono le loro case e aprirono negozi all’angolo che vendevano burka, tappetini per la preghiera e profumi che non contenevano alcol, in linea con le restrizioni del Corano.

Presto i nuovi arrivati hanno costruito la moschea che è progettata per ospitare 4.000 fedeli. Oggi, un tribunale della Sharia nelle vicinanze – criticato in un rapporto della Camera dei Lord per la discriminazione contro le donne nel divorzio e nelle controversie matrimoniali – fa ottimi affari sposando il rigido codice di giustizia islamica.

Anche la signora che vende gelati da un furgone durante l’estate indossa un burqa, e il macellaio che gira per le strade offre solo capra, agnello e struzzo halal.

State a Savile Town, come ho fatto io, e vedrete decine di ragazzi in abiti islamici che vanno e vengono dalle lezioni alla scuola madrasa della moschea, dove per ore e ore imparano a memoria il Corano.

E, in modo angosciante, ogni ragazza che ho visto – anche quelle di sei e sette anni che giocavano nel parco – era avvolta in un hijab da una spalla all’altra dell’abito per evitare che un uomo intraveda la sua carne.

Savile Town fu lasciata diventare un’enclave etnica. E sembra che questo distacco dalla società principale abbia avuto ripercussioni inquietanti. Perché questa piccola area ha prodotto diversi giovani jihadisti che sono scomparsi per combattere – e morire come attentatori suicidi – per lo Stato Islamico in Medio Oriente.

(Mohammed Sidique Khan, il leader degli attentatori che attaccarono Londra il 7 luglio 2005, era cresciuto nelle vicinanze. Ha dato l’addio alla moglie incinta nella loro casa a schiera prima di guidare i suoi compagni di attacco nella capitale per reclamare 52 vite innocenti in esplosioni su treni della metropolitana e autobus).

La vita a Savile Town è stata indagata all’inizio di quest’anno da Owen Bennett-Jones, l’ex corrispondente della BBC in Pakistan, che ha fatto luce sull’influenza del movimento Deobandi sulla popolazione musulmana qui.

Intervistato per il programma di Radio 4 era Mufti Mohammed Pandor, un funzionario civile e portavoce dei Deobandi. È arrivato dal Gujarat, in India, nel 1964, da bambino, con la sua famiglia.

Vive vicino a Savile Town, e si definirebbe un musulmano britannico. Eppure si è rifiutato di lasciare che l’intervistatore Bennett-Jones vedesse sua moglie quando il reporter ha visitato la casa della coppia, anche se le è stato permesso di fare il thè in cucina.

Pandor insiste che lei è completamente coperta quasi sempre, permettendole solo di sollevare il velo per i controlli dei passaporti negli aeroporti. La sua famiglia guarda raramente la televisione britannica e dice che tutta la musica non è islamica.

Nonostante sia consigliere religioso di due università – Bradford e Huddersfield – ha detto alla BBC che agli uomini musulmani dovrebbe essere permesso di entrare negli istituti di istruzione superiore solo per studiare e pregare, e “non per guardare le donne”.

“Se Maometto non l’ha fatto, noi non lo facciamo”, ha detto Pandor alla BBC, dicendo che i Deobandi sono un movimento “back to basics” i cui seguaci vivono nello stile di vita del Profeta, di 14 secoli fa.

Si potrebbe liquidare un pensiero così disperatamente arretrato come appannaggio di una piccola setta stravagante, ma i Deobandi gestiscono quasi la metà delle 1.600 moschee registrate nel Regno Unito, e formano l’80% di tutti i chierici islamici nazionali che, a loro volta, giocano un ruolo enorme nell’influenzare la crescente popolazione di musulmani britannici.

Forse non è una sorpresa che i pochi indigeni dello Yorkshire rimasti a Savile Town si sentano in qualche modo assediati.

Maggiori informazioni

Lorraine Matthews, nella casa vicino al canale, è schietta nei suoi commenti sulla comunità in cui ora vive: “Non uscirei di notte da sola perché è pericoloso se non sei della comunità musulmana. Non è ragionevole per una donna camminare lì dopo il tramonto. I ragazzi asiatici si radunano agli angoli, ti fanno sentire intimidita perché non rispettano le donne bianche”.

Quando io stessa ho camminato lungo South Street verso la moschea, figure in burka hanno sbirciato fuori dalle loro finestre con le tende di pizzo con sorpresa nel vedere il volto di una donna scoperta.

Ho chiesto a un adolescente alto, che indossava un berretto islamico e abiti bianchi sui jeans, indicazioni per l’ingresso della moschea. La sua risposta è stata sputarmi addosso e gridare: “Vattene, non dovresti essere qui. Non tornare”.

È deprimente trovarsi di fronte a una tale aggressione. E non ho dubbi che anche molti musulmani si sentiranno angosciati da un tale comportamento. Non tutti i seguaci britannici dell’Islam desiderano vivere in aree dove persone di altre fedi o culture potrebbero temere di camminare.

Eppure, in luoghi come Savile Town, i presagi non sono buoni.

Per quanto poco piacevole possa essere per i liberali britannici, il fatto è che molti musulmani qui vogliono vivere solo con quelli della loro stessa cultura.

Infatti, alcuni dei pochi residenti non musulmani rimasti dicono di essere regolarmente presi di mira dai membri della comunità islamica locale che vogliono comprare le loro case.

Alcuni persino bussano alla porta in abiti religiosi che offrono mazzette di denaro in sacchetti di plastica per acquistare le loro case.

Jean Wood, 76 anni, nata nello Yorkshire e frequentatrice della chiesa, è una residente di lunga data che si sente tagliata fuori. I suoi figli la pregano di trasferirsi in una zona dove possa condividere la sua pensione con il tipo di persone con cui è cresciuta.

Nella sua casa ordinata ai margini di Savile Town, mi ha raccontato cosa è successo il giorno dopo che suo marito è morto improvvisamente mentre era seduto al tavolo della cucina.

“Non se n’era andato neanche da 24 ore quando una vicina musulmana spinse un biglietto attraverso la porta dicendo che voleva comprare questa casa”, ricorda. “Avevamo vissuto qui tutta la nostra vita da sposati”. Ero addolorata, anche se il biglietto non menzionava la mia perdita.

“Ma ho raccolto le mie forze. Ho telefonato al numero sul pezzo di carta e ho detto che la mia casa non era in vendita e che non lo sarebbe mai stata durante la mia vita”.

Erano parole coraggiose, ma – inevitabilmente – il portavoce dei Deobandi, Mufti Pandor, la vede diversamente.

Ha descritto, su Radio 4, come la ‘white flight’ sia avvenuta quando la sua famiglia è arrivata a Savile Town. “Chi avrebbe comprato la casa accanto alla nostra?” ha detto Pandor. “Certamente non sarebbe stato un bianco… così mio zio la comprò. Allora eravamo in due. Allora indovina cosa è successo? Il tizio di fronte ha detto: ‘Fanculo, me ne vado’ – e se n’è andato”.

Non è difficile capire perché, con i sospetti che corrono in profondità su entrambi i lati della divisione culturale, Savile Town sta, nel bene e nel male, cambiando per sempre.

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L’ISLAMIZZAZIONE DI OSLO

Bruce Bawer

Fonte: City Journal

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

A Groruddalen, vasto quartiere della capitale norvegese, i limiti del multiculturalismo sono messi a dura prova da una pesante immigrazione islamica.

Con una popolazione che supera le 600.000 unità, Oslo è divisa in due parti da Akerselva, un modesto ruscello che dalle montagne del nord scende sino al fiordo. La metà occidentale è di livello più elevato, caratterizzata da numerose residenze alla moda nei pressi del centro cittadino, e – più in là – da eleganti vicinati, colmi di belle case spaziose e giardini ampi e ben tenuti. La metà orientale è più sudicia: nella parte centrale si trovano aree che tanto ricordano l’East Village newyorchese, con bar e club stilosi, giovanili e pieni di graffiti, oltre ad un paio di zone ad alta densità musulmana, Tøyen e Grønland; ancora più ad est, invece, abbiamo Groruddalen.

Una grande, piatta, anonima valle (dal significa appunto ‘valle’ in norvegese), Groruddalen ospita più di un quarto della popolazione di Oslo. Immaginate San Fernando Valley, e ci sarete quasi. Per alcuni decenni adesso, nella mente del norvegese medio la valle si è trovata associata all’Islam. Il 28 agosto del 2017, Rita Karlsen di Human Rights Service (HRS) – think-thank con base ad Oslo – ha osservato come siano trascorsi ormai sedici anni dal giorno in cui il politico laburista Thorbjørn Berntsen dichiarò: “Esiste un limite al numero di immigrati che Groruddalen può accettare. Questo limite si appresta ormai ad essere alle porte. So di persone che vogliono andarsene perché la città di Oslo seguita a riempire palazzi e palazzi con rifugiati e richiedenti asilo… Dobbiamo semplicemente ammettere che i conflitti culturali cominciano ad essere evidenti. “ Altri politici respinsero le preoccupazioni di Berntsen. L’allora capo del Partito Laburista di Oslo, Bjørgulv Froyn, insistette – ad esempio – che i problemi di Groruddalen nulla avessero a che fare con l’immigrazione. Il leader dei conservatori di Oslo, Per-Kristian Foss, accusò addirittura Berntsen di “stigmatizzare un intero quartiere ed un’intera popolazione”. Foss, apertamente omosessuale, decise di sorvolare sul fatto che la vita per un omosessuale in certe parti di Groruddalen fosse ormai divenuta problematica.

Gli ammonimenti di Berntsen – risalenti al 2001 – si sono rivelati profetici. Fra il 2008 ed il 2010, più di 6000 norvegesi autoctoni hanno lasciato Groruddalen, mentre un numero quasi doppio di immigrati – perlopiù musulmani – ha preso il loro posto. Nel 2009, un buon 67 per cento dei bambini nati a Stovner, un distretto amministrativo situato all’estremo est della valle, avevano madri non-Occidentali. Nel 2010, gli immigrati componevano più del 40 per cento della popolazione di Groruddalen, tanto da condurre Lars Østby, demografo capo presso l’Istituto Norvegese di Statistica (SSB) – l’agenzia ufficiale nazionale di statistiche – a predire che – entro non molto – la maggioranza della popolazione della valle sarebbe stata formata da immigrati e relativi figli. Østby non vedeva in ciò un problema – ciò nonostante la cupa realtà di determinate aree urbane nella vicina Svezia, quali Rinkeby a Stoccolma e Rosengård a Malmö, divenute ormai enclave islamiche: società parallele dove la sharia ha soverchiato la legge svedese, e imam, gang e capetti locali assortiti hanno largamente spodestato l’autorità del governo svedese, della polizia e dei tribunali.

Nel 2011, il giornale Aftenposten infranse il massiccio silenzio mediatico riguardante le esperienze di vita vissuta dei norvegesi autoctoni residenti a Groruddalen. “E’ stato difficile essere norvegese a Groruddalen”, ammise al giornale Patrick Åserud, un insegnante che nella valle aveva trascorso tutta la sua vita. “Si è trattato di enormi problemi linguistici, oltre ad una costante pressione a doversi adattare ad una normalità totalmente aliena a chi di noi teneva a mantenere uno stile di vita ed una mentalità occidentali.” Åserud rivelò che in alcune scuole della valle “i bambini rischiavano le botte nel caso si fossero portati nel cestino un panino al salame. Le ragazze bionde erano regolarmente tormentate, e per non avere problemi erano costrette a tingersi i capelli. Non si poteva essere gay a scuola, o ebreo, o ateo… Una famiglia indiana di mia conoscenza era obbligata a vivere islamicamente motivo del loro incarnato scuro.” Su diciotto incontri fra insegnanti e genitori recentemente tenuti da Åserud, dieci necessitavano di interpreti. Le condizioni di vita nella valle erano peggiorate nel corso degli ultimi tre anni, spiegò, così tanto da condurlo a decidersi – con gran riluttanza – a togliere le tende: “Non voglio che i miei figli crescano qui.” Il giornalista di Aftenposten suggerì che Åserud fosse “troppo suscettibile”, e “fuori contatto rispetto alla nuova normalità norvegese.” L’insegnante replicò che se questo fosse stato il caso, tanti norvegesi di Groruddalen lo erano altrettanto.

Due anni dopo, nel 2013, un rapporto dell’Istituto Norvegese di Statistica commendevolmente sincero riconobbe che 1000 norvegesi autoctoni lasciavano Groruddalen ogni anno, con un numero equivalente di immigrati extra-europei pronti a rimpiazzarli. Durante quell’anno soltanto, il numero degli scippi a Groruddalen crebbe di quasi 80 punti percentuali. La grande maggioranza dei responsabili tratti in arresto erano adolescenti, con nomi islamici ed origini alloctone; quasi nessuno dei loro genitori si degnò di assistere ai loro processi (un padre in realtà si recò in aula, ma solamente per intimidire le vittime affinché ritrattassero le loro testimonianze). Nonostante ciò, i politici e la polizia seguitava ad ostinarsi a ribadire che a Groruddalen tutto andava bene. Citavano, in proposito, statistiche relative a reati differenti dai piccoli crimini di strada, che sembravano – almeno superficialmente – suffragare le loro tesi. In realtà, molti dei crimini commessi nella valle – se non praticamente tutti – non erano semplicemente mai stati denunciati. Le vittime musulmane di reati commessi da altri musulmani sapevano fin troppo bene di non interpellare le autorità: le famiglie, gli imam, gli altri correligionari avrebbero considerato la denuncia un tradimento, un tradimento da punire adeguatamente. I panni sporchi – ne erano consapevoli – avrebbero dovuto essere lavati esclusivamente all’interno delle comunità. Molte vittime non islamiche – da parte loro – avevano a loro volta paura di parlare con gli agenti di polizia, perché sapevano che le vendette che le avrebbero aspettate da parte dei propri vicini immigrati avrebbero fatto senz’altro impallidire il crimine originariamente subito.

Nel 2015, il sociologo Halvor Fosli pubblicò Fremmed i eget land (“Uno straniero a casa propria”), un libro basato su venti interviste a norvegesi autoctoni residenti a Groruddalen. Fosli scelse deliberatamente individui in qualche modo coinvolti nella vita delle proprie comunità – chi aveva figli a scuola, ad esempio, o chi sedeva nei consigli direttivi delle stesse. Come ci si sentiva, veniva chiesto loro, ad esser diventati minoranza nella terra dei propri padri? Le risposte furono semplicemente disturbanti. Gli studenti non islamici vivevano nella paura costante di finire nel mirino delle gang islamiche, ma non riuscivano a comprendere davvero cosa avrebbero dovuto evitare di dire o fare per non avere grane, perché i compagni musulmani giudicavano la loro condotta basandosi su codici di comportamento completamente estranei alla società norvegese. Per quanto concerneva le ragazze e le donne non islamiche, solamente uscire di casa da sole – recandosi al supermercato, ad esempio – guadagnava loro occhiatacce furiose di barbuti maschi musulmani, convinti che costoro non avrebbero dovuto neppure lasciare la propria abitazione se non accompagnate da un uomo e con il capo coperto. Per gli ebrei, poi, la situazione era ancor più dura. Per gli omosessuali? Lasciamo perdere. In breve, un posto dove un tempo le persone vivevano senza paura, e trattavano le une le altre rispettosamente ed amichevolmente, si era trasformato in un covo di tensioni, paura, odio – non odio anti-islamico, si badi bene, bensì anti-norvegese.

Il libro di Fosli scatenò una prevedibile ondata di condanne sui media mainstream. La sinistra multiculturale definì Fosli un bugiardo. In un articolo di Aftenposten intitolato “No, non sono uno straniero a casa mia”, Inger Sønderland riferì di essersi trasferita nella valle tre anni prima, e di essersi sentita immediatamente benvenuta. “Mi sento a casa qui!”, queste le sue parole. “In questo ambiente dove tutti siamo così diversi, mi sento libera. Posso rilassarmi, essere me stessa… Amo questa commistione di genti.” Anche Øyvind Holen, già collaboratore dei principali quotidiani norvegesi, autore di diversi libri sulla musica hip-hop, oltre che di una sua propria cronaca da Groruddalen di dieci anni precedente, ritenne di dire la sua, affermando su Dagbladet che Fosli e le sue interviste erano “ossessionate dall’Islam”, e che si erano dispiegate in un “attacco ossessivo contro le minoranze pakistane e somale”. Con un’attenzione mediatica benevola, il libro di Fosli avrebbe potuto mettere la politica, la polizia e le autorità migratorie dinanzi alle proprie responsabilità; invece, gli sforzi rabbiosi per screditarlo fecero sì che il suo libro non avesse alcun impatto sulle policy locali o nazionali. La vita andò avanti come se nulla fosse stato: nel 2016, le autorità scolastiche ricevettero le denunce di quasi 2000 casi di violenza contro gli insegnanti di Oslo, ma non ne riferirono alla polizia neppure una; nel mese di gennaio del 2017, un rapporto descrisse il crimine giovanile a Groruddalen come in ascesa vertiginosa.

Nel febbraio del 2017, Forskning.no – un sito Internet che affermava di fornire notizie affidabili sulla scienza e il suo progresso in tutto il mondo – ribadì che stando ad un nuovo rapporto del NOVA – un istituto di ricerca norvegese – fra i giovani di Groruddalen tutto andava alla grande. “Vanno bene a scuola, hanno relazioni positive con i propri genitori, sono soddisfatti della realtà in cui si trovano a vivere, e bevono meno alcool degli altri giovani di Oslo.” Ma quando Nina Hjerpset-Østlie dell’HRS ebbe a leggere il rapporto NOVA, si rese conto che ad esser presi in esame erano stati soprattutto i ragazzi musulmani, per molti dei quali la valle veniva ad essere senza dubbio un vero parco divertimenti. Il rapporto stesso non poteva negare che per le ragazze ed i non islamici risiedere a Groruddalen non fosse così esaltante, e l’insicurezza era causata proprio dal comportamento aggressivo e predatorio di quei giovani musulmani che a Groruddalen vivevano felici e contenti. Un giovane su cinque nella valle – perlopiù ragazzi non islamici – si erano trovati ad essere soggetti a violenza, o minacce di violenza. Le ragazze islamiche, da parte loro, di violenza ne subivano meno, quantomeno fuori dalle loro case – probabilmente, suggerì Hjerpset-Østlie, perché era la loro stessa opportunità di essere esposte ad una tale routine di violenza ad essere minore, dal momento che i loro movimenti nel mondo esterno, in aderenza alle norme della cultura islamica dell’onore, erano strettamente controllati e monitorati dalle famiglie.

L’11 marzo 2017, per la sorpresa di molti spettatori, il notiziario notturno sulla rete televisiva pubblica NRK mandò in onda un onesto spaccato del drammatico dilagare del crimine nella parte est della città di Oslo, concentrandosi principalmente su Groruddalen – dove, come riportato dal giornalista Anders Magnus, circa la metà della popolazione aveva origini extra-europee. Dodicenni spacciavano droga; quindicenni giravano con pistole, coltelli e mazze da baseball addosso; gang di giovani islamici aggredivano adulti in pieno giorno, ed i loro genitori, islamici anch’essi, con poche eccezioni mostravano una completa indifferenza alle attività delinquenziali dei propri figli. In tutto ciò, non distaccandosi neppure in un tale caos da una inveterata usanza norvegese, gli agenti di polizia seguitavano a rimanere disarmati. Magnus intervistò un allenatore di hockey che riferì come alcuni dei suoi giocatori avessero deciso di smettere, nel terrore di essere picchiati sulla strada per il campo di allenamento. Un giovane del luogo spiegò come i musulmani della valle avessero instaurato una vera e propria “società parallela”, nella quale i ragazzi semplicemente non avevano più alcun timore della polizia. Fedele a sé stesso, il giornale Aftenposten condusse un furibondo attacco al servizio di Magnus: Øystein E. Søreide e Mobashar Banaras, due influenti politici di Groruddalen, accusarono la NRK di dar luogo ad un’”impropria stigmatizzazione” degli abitanti della valle, e di fomentare ingiuste divisioni fra “noi” e “loro”.

Quindi, a maggio, per tre notti consecutive, dozzine di adolescenti musulmani misero a ferro e fuoco Vestli, all’estremo est di Groruddalen, tirando pietre, appiccando incendi, ed accoltellando persone. Solamente tre dimostranti furono arrestati, e rapidamente rilasciati. La durezza della vita nella valle diveniva sempre più difficile da negare – per quanto, come osservato da Rita Karlsen del HRS, i media mainstream ed i portavoce della polizia si ostinassero ad insabbiare le notizie ed a negare risolutamente che Groruddalen scivolasse verso una “deriva svedese”, negando e negando ancora persino dopo quello che era accaduto – una vita la cui realtà era scandita ormai da un crimine fuori controllo, e da una completa sudditanza delle autorità ai leader delle comunità musulmane. Fonti interne di polizia rivelarono però che la polizia, lontano da occhi esterni, riconosceva eccome la gravità dei problemi presenti nella valle. In numeri enormi, giovani islamici minacciavano insegnanti, guardie di sicurezza, gestori di esercizi commerciali, poliziotti, pompieri, paramedici, e molti altri ancora; sempre più incendi venivano appiccati, esattamente come già accadeva nelle periferie di Stoccolma e di Parigi.

Negli ultimi anni, gli sforzi della polizia per riportare l’ordine a Groruddalen si sono risolti in un vero fallimento. Un problema è rappresentato dalla difficoltà di ottenere per gli agenti un’abilitazione ufficiale a portare armi da fuoco – un cambiamento di policy vigorosamente osteggiato da politici e giornalisti. Un altro è invece l’incapacità degli alti papaveri della polizia di Oslo di confrontarsi sinceramente con la situazione nella valle – non devono esser stati felici quando un poliziotto di Stovner ammise, nel corso di un’intervista con una rete locale, che gli agenti evitavano per paura di entrare in certe zone di Groruddalen, descrivendo addirittura come “impensabile” un ingresso della polizia in tali aree. Il problema fondamentale rimane però il tradizionale approccio scandinavo al crimine: darsi da fare per rintracciare questa o quella causa primaria, trattare i rei come vittime della società, e considerare la compassione un rimedio per la criminalità. Un simile approccio può funzionare con alcuni ragazzotti norvegesi un po’ ribelli, ma rimane totalmente inutile dinanzi alla condotta dei loro coetanei musulmani, portati dall’humus culturale in cui sono cresciuti a reputare un tale trattamento con i guanti di velluto un segno di debolezza, e cavalcarlo.

Ad agosto un nuovo anno scolastico ha visto il suo inizio. Il 28 di settembre, il quotidiano norvegese VG ha riferito che, dal suono della prima campanella, così tanti episodi di violenza avevano avuto luogo in una scuola superiore di Stovner – uno addirittura con un’ascia ed una spranga di mezzo – da spingere il preside, Terje Wold, a dichiarare di non essere più in grado di garantire la sicurezza di insegnanti e studenti. In risposta, il ministro dell’istruzione Henrik Asheim ha ritenuto di convocare una riunione d’emergenza; a seguito del meeting, una pattuglia di agenti è stata permanentemente dislocata a guardia quotidiana della scuola. VG in quella occasione osservò Stovner non essere un caso isolato: la violenza in altre scuole di Groruddalen si era egualmente intensificata nel corso degli anni più recenti, portando allo sviluppo di quella che in norvegese è definita con il termine ukultur, letteralmente una “a-cultura” – caratterizzata da una mancanza di cultura – una non-cultura violenta, anarchica, selvaggia.

Avanti così, arriviamo ad oggi. Groruddalen continua a riempirsi senza posa di islamici, e gli autoctoni continuano ad andarsene. La fertilità delle famiglie musulmane fa arrossire di vergogna quelle norvegesi. In alcune classi, solamente uno o due bambini parlano norvegese. Rapporti presenti sul sito ufficiale del HRS e su document.no (che parla di temi legati all’Islam con una schiettezza raramente riscontrabile nell’universo mediatico) chiariscono che la violenza nella valle è in crescita e si fa sempre più intensa, con sempre più megarisse fra gang e roghi di auto in stile banlieu parigina. Circolano sempre più voci di norvegesi che si uniscono in ronde per perlustrare e preservare i propri vicinati. Se Groruddalen non è ancora integralmente una no-go zone, sul modello di Rinkeby o Rosengård, poco ci manca. Non manca molto a che si possa parlare della valle come di un dominio islamico in terra secolare; nonostante ciò, politici e giornalisti persistono cocciutamente a dipingerla come un paradiso di integrazione ed arricchimento multiculturale.

Nell’agosto del 2017, Hege Storhaug del HRS prese nota di un manifesto promozionale per una nuova libreria a Stovner. Ritraeva tre ragazze dalla pelle scura, due delle quali indossanti uno hijab, intente a leggere insieme alcuni libri con aria felice. “Questo è il futuro”, commentò Storhaug. Thorbjørn Berntsen riconobbe questo futuro già sedici anni fa; non solo lui, ma gli altri scelsero il silenzio. Anche adesso, mentre Groruddalen sprofonda nell’anarchia ed in una completa islamizzazione, pochi osano aprir bocca, e nel mentre, oltre le colline e le montagne che circondano la valle, la cappa oscura calata su di essa già si estende lentamente al resto della Norvegia.

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RECENSIONE HOSTILES – OSTILI

Giovanni Becciu

Perché, per il cinema americano, la colpa ricade sempre e solo sull’uomo bianco, invariabilmente dipinto come un malvagio colonialista? Molto mi ha fatto riflettere in proposito la visione del film “Hostiles”, di Scott Cooper, nella cui visione mi sono imbattuto casualmente in un’afosa sera di agosto, dopo aver posto a me stesso una domanda sin troppo banale: “perché non concedere una possibilità anche ad un western di nuova generazione?”

Avvertendo in anticipo della presenza di spoiler nel prosieguo di questa recensione, parto con l’ammettere che, per una buona mezz’ora, il film mi è piaciuto. Il dispiegarsi della trama comincia con un assalto ad una famiglia di coloni da parte di una banda di pellirossa, fatto questo che – per la cronaca – accadeva assai di frequente, ma che nel nome del politicamente corretto nessuno avrebbe mai il coraggio di riportare. Nell’assalto muoiono – brutalmente trucidati – il capofamiglia, soggetto addirittura alla feroce pratica del taglio dello scalpo, due bambine di circa dodici anni, ed un neonato. Il regista, in una scena spiazzante per la sua crudezza, ha – a mio avviso – il merito di mostrare senza blandizie tutta la violenza perpetrata dai pellirossa ai danni dei coloni bianchi; come non menzionare, ad esempio, la terribile immagine della madre che si salva scappando e nascondendosi, senza accorgersi della morte – causata da un colpo di pistola – del figlioletto neonato.

La trama salta dunque in New Mexico, altra celeberrima località del selvaggio West, dove un gruppo di soldati sta dando la caccia ad una famiglia di indiani, fuggiti dalla riserva dove si trovavano confinati. Una volta catturati i fuggiaschi – adeguatamente legati ed insultati – vengono questi ultimi trasferiti nelle vesti di prigionieri presso un tipico forte di frontiera (Fort Berringer), ai quali negli anni Settanta ci hanno abituati gli assai più gradevoli film di John Wayne. Ad attendere il capitano dell’esercito Joseph Blocker (interpretato da un fenomenale Christian Bale) l’ordine di condurre un vecchio capo indiano morente e la sua famiglia nella loro terra natia. In una scena assai ben fatta, il succitato capitano – che odia i nativi con tutto sé stesso – rifiuta di eseguire il comando impartitogli, poiché il capo indiano, prima di essere catturato, si era già reso responsabile in passato della morte di numerosi suoi commilitoni. Nonostante l’ostinata pervicacia dell’ufficiale, la composita carovana di pellirossa e “visi pallidi” parte comunque alla volta del Montana, dove è situata appunto la “Valle degli orsi”, terra d’origine della famiglia indiana scortata.

In un ulteriore salto di trama, il convoglio raggiunge casualmente le prossimità della casa incendiata della famiglia di coloni introdotta all’inizio, rinvenendo il corpo trucidato del capofamiglia appena fuori le rovine dell’abitazione. Entrato all’interno, il gruppo trova – ai piedi del letto – anche sua moglie Rosalie Quaid (una magistrale Rosamunde Pike) con ancora in braccio il cadavere del figlioletto neonato, accanto a lei le povere salme delle due bambine. Il capitano comprende immediatamente la situazione, e cerca di mostrarsi accondiscendente con la donna traumatizzata, che invoca silenzio perché, così implora, “i bambini stanno dormendo”. Fatto ritorno al modesto accampamento, alla vista degli indiani la donna scoppia comprensibilmente in una crisi di pianto, ma mentre l’atteggiamento del capitano nei confronti dei nativi si indurisce ulteriormente a motivo delle atrocità di cui è stato testimone, i pellirossa – da parte loro – provano ad essere gentili, e ad instaurare un contatto con la sopravvissuta devastata dal dolore.

Da qui in avanti, assistiamo ad un emergere sempre più marcato del senso di “white guilt” che caratterizza, come menzionavo in apertura, tanta parte della cinematografia statunitense. Incontriamo, infatti, un sergente ex-confederato che domanda perdono agli indiani per quello che hanno subito per mano delle proprie truppe, un gruppo di cacciatori che rapisce e violenta la donna bianca – che nel frattempo, dimentica dei lutti e del rancore, aveva fraternizzato con i pellirossa – e le indiane della comitiva, ed un proprietario terriero che, con il supporto dei propri figli, si oppone alla sepoltura del capo nativo nella sua proprietà.

Una sparatoria deflagra a rappresentare l’apice della trama: muoiono quasi tutti gli indiani – tranne un bambino – e quasi tutti i bianchi, tranne il capitano e Rosalie; muoiono anche il proprietario terriero – ucciso a coltellate dall’ufficiale – e tutti i suoi figli. Segue un finale ipocritamente “strappalacrime”, con il capitano, la donna, ed il piccolo indiano uniti partendo insieme in treno, diretti verso un futuro rifulgente. Come abbiamo visto, dopo “Balla coi lupi” anche questo “Hostiles” si colloca nel consueto filone artistico accusatorio e critico nei confronti del mondo bianco e della sua storia, e non fosse per la prima, meravigliosa, mezz’ora, ben poco in quest’opera troveremmo da salvare.

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SONO SVEDESE, MA VIVO IN ABSURDISTAN

Ingrid Carlqvist

Signore e signori. Mi chiamo Ingrid Carlqvist e sono nata in Svezia nel 1960, quando i Socialdemocratici stavano per prendere il controllo in perpetuo e la nostra nazione era la più bella, la più sicura e la più avanzata nel mondo. Ora io vivo in Absurdistan, una nazione che ha le statistiche più alte di stupri nel mondo, centinaia di cosiddette “aree di esclusione” in cui le persone vivono al di fuori della società svedese, e con i quotidiani che nascondono alla gente tutti questi orribili fatti.

Mi sento proprio come Dorothy Gale ne Il Mago di Oz, un tornado è arrivato e mi ha portato molti chilometri lontana da casa, facendomi precipitare in una nazione che non conosco. Ora mi sento come se non fossi più in Svezia. Come Dorothy sto cercando un modo per trovare la mia casa, ma nel mio percorso incontro solo leoni senza coraggio, spaventapasseri senza cervello e uomini di latta senza cuore. Quando sono cresciuta il nostro primo ministro era Tage Erlander, un socialdemocratico. Nel 1965 disse in parlamento, dopo le violente rivolte razziali in America. “Noi svedesi viviamo in una situazione decisamente migliore. La popolazione della nostra nazione è omogenea, non solo per quanto riguarda la razza ma anche in molti altri aspetti”. Ora vivo in una nazione che non è omogenea in nessun aspetto. Olof Palme, che gli succedette, decise che l’omogeneità era una cosa negativa e aprì i confini a persone da tutto il mondo. E da destra a sinistra i politici ci dicevano che non esistevano cose come una cultura Svedese, delle tradizioni Svedesi meritevoli di essere menzionate e che noi svedesi dovevamo essere grati che così tante persone con una VERA cultura e delle VERE tradizioni venivano da noi.

Mona Sahlin, una leader successiva dei Socialdemocratici, in un’intervista del 2002 al giornale Euroturk, ad una domanda sulla cultura svedese risposte:

“Ho avuto spesso questa domanda, ma non riesco a pensare a cosa sia la cultura Svedese. Credo che è questo che rende noi svedesi così invidiosi verso gli immigrati. Voi avete una cultura, un’identità, qualcosa che vi lega gli uni agli altri. Noi cos’abbiamo? Abbiamo la vigilia del giorno di San Giovanni Battista e cose banali di questo tipo”.

Ha detto anche: “Gli svedesi si devono integrare nella nuova Svezia. La vecchia Svezia non torna più”.

Nella nuova Svezia vengono riportati più stupri che in qualunque altra nazione dell’UE, secondo uno studio del professore inglese Liz Kelly. Più di 5.000 stupri o tentati stupri sono stati registrati nel 2008 (l’anno prima erano oltre 6.000). Nel 2010 un altro studio ha affermato che solo una nazione nel mondo ha più stupri della Svezia, ovvero il Lesotho, nell’Africa meridionale… Per ogni 100.000 abitanti il Lesotho ha 92 stupri registrati, la Svezia 53, gli USA 29, la Norvegia 20 e la Danimarca 7.

Nel 1990 le autorità hanno conteggiato 3 aree di esclusione in Svezia, sobborghi in cui vivono la maggior parte degli immigrati, dove solo pochissimi lavorano, quasi tutti vivono di sussidi ed i loro figli non passano gli esami. Nel 2002 ne hanno conteggiate 128, nel 2006 ne avevamo 156 e poi hanno smesso di conteggiarle. In alcune città, come Malmö, dove vivo, un terzo degli abitanti vivono in una area di esclusione.

Cosa voleva dire Tage Erlander quando diceva che la popolazione svedese era omogenea non solo dal punto di vista razziale ma anche in molti altri aspetti? Penso intendesse cose come regole, valori, cultura e tradizioni. Un sentimento di sodalizio. Che tutti noi, nella Vecchia Svezia, avevamo una visione simile di ciò che era una buona società e di come risolvere i conflitti. CONOSCEVA la cultura svedese, a differenza di Mona Sahlin.

Nella Nuova Svezia abbiamo bisogno di poliziotti armati nei nostri ospedali perché le famiglie rivali si combattono nelle stanze degli ospedali. Si sparano l’un l’altro per strada, derubano e picchiano i vecchi. Il tasso di criminalità cresce ogni minuto, ma i politici e i giornalisti svedesi ci dicono che questo non ha assolutamente niente da fare con l’immigrazione. Il fatto che le nostre prigioni siano piene di stranieri è solo una coincidenza o è spiegato da fattori socio-economici.

Per molti anni sono stata una giornalista nei media mainstream. Ma sono stata sempre una sorta di piantagrane, sempre dubbiosa del fatto che ciò che mi dicevano le persone fosse LA VERITA’. Quando tutti andavano in una direzione, io giravo verso l’altra direzione per vedere cosa c’era lì.

Nel Gennaio 2011 era successo qualcosa che mi ha fatto perdere le ultime speranze nei giornalisti svedesi. Ero vicepresidente della Società dei Pubblicisti di Malmö ed avevo invitato il giornalista danese Mikael Jalving a parlare del suo libro in uscita “La Svezia senza filtri – Un viaggio nella Nazione del Silenzio”. Un giorno il presidente mi ha chiamato e mi ha detto “dobbiamo cancellare la presenza di Mikael Javing perché parlerà ad una riunione organizzata da un giornale chiamato “National Today”.

Non gli interessava, né interessava a nessun altro nel board d questa società di giornalisti che Jalving stava andando a parlare del suo libro. Andando a questa riunione sarebbe stato infettato da idee nazionaliste e probabilmente sarebbe diventato un nazi. Vedete, in Svezia tutti quelli con opinioni diverse sono dei nazi!

È così che funziona la Nuova Svezia, la nazione che chiamo Absurdistan. La nazione del silenzio.

Ero furiosa e ho lasciato il board di questa società. Questo mi ha portato ad essere invitata dalla Danish Free Press Society (ndt, società danese per la libera stampa) per parlare della strana nazione della Svezia e questo mi ha portato a fondare la Swedish Free Press Society (ndt, società svedese per la libera stampa).

È così che io e Lars Hedegaard ci siamo trovati. Ma non ci siamo accontentati di una sola Free Press Society per uno, dal momento che entrambi abbiamo un solido background di giornalisti abbiamo deciso di iniziare un giornale. Un buon giornale stampato vecchia scuola. Abbiamo deciso di chiamarlo Dispatch International (messaggio internazionale) perché la nostra intenzione è diffondere questo giornale in tutto il mondo prima o poi. Ma per prima cosa prendiamo Manhattan, poi Berlino. O piuttosto, prima ci prendiamo la Scandinavia e poi ci prendiamo il mondo!

Dispatch sarà stampato in due versioni, una in Danese e una in Svedese, ma tutti gli articoli saranno gli stessi. Su internet potrete leggerli anche in Inglese e Tedesco. Scriveremo di politica nelle nostre nazioni e nel mondo. Scriveremo di tutte queste cose che i media mainstream vi nascondono da così tanti anni. Distingueremo fra notizie e commenti ed il tono sarà attenuato. Lasceremo parlare i fatti, i fatti che i giornalisti mainstream nascondono alle persone.

La situazione in Svezia è molto peggio che in Danimarca. In Svezia NESSUNO parla dei problemi dell’immigrazione, della morte del progetto multiculturale o dell’islamizzazione/arabizzazione dell’Europa. Se lo fai sarai subito apostrofato come razzista, islamofobo o nazi. Questo è il mondo in cui sono stata chiamata fin da quando ho fondato la Free Press Society in Svezia. Il mio nome è stato infangato su grandi testate come Sydsvenskan, Svenska Dagbladet, e persino dal mio giornale sindacale, The Journalist.

Quindi ho bisogno che tutti voi siate la mia Glinda, la Strega Buona del Nord, e mi aiutate a ritrovare la mia casa! Non penso che funzionerà battere i talloni delle mie pantofole di rubino tre volte come Dorothy ha fatto per risvegliarsi nella sua camera da letto nel Kansas. Ma se supportate Dispatch iscrivendovi o diventando un azionista, o anche solo donandoci denaro, mi porterete un passo più vicino a casa. Alla Svezia com’era una volta, la Svezia che rivoglio indietro.

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STORIA E DECLINO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

Riccardo Tennenini e Nicola Sgueo

Recensione del libro in due volumi “Il tramonto dell’Europa” e “Il tramonto degli Stati Uniti d’America”.

Le proteste dei Black Lives Matter scaturite dalla morte di George Floyd hanno assunto una portata globale, mostrando al mondo l’utopia del modello multiculturale proiettato verso l’abisso tra tensioni etniche, e meccanismi di mercato. A questo punto c’è da farsi una domanda che cosa accade al “mondo bianco”? Afflitto dal declino demografico e sottoposto e immigrazione di massa dal Terzo Mondo, l’Occidente si avvia al tramonto della propria civiltà. Tra “white guilt”, inginocchiamenti di massa con il pugno alzato, blackwashing della storia europea, cancel culture, il “mondo bianco” diventa sempre più una civiltà fantasma. Questo saggio affronta il suo declino alla radice, riportando ciò che i mass-media mainstream non dicono: un viaggio nell’Europa che verrà, dove alla disgregazione delle identità si accompagna la terzomondizzazione del Continente.

GLI STATI UNITI SARANNO “UNA MINORANZA BIANCA” GIA’ NEL 2045

William H. Frey

La giovinezza delle minoranze sarà il motore della futura crescita.

Fonte: Brookings

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Nuovi censimenti ribadiscono l’importanza delle minoranze razziali come primario motore demografico della futura crescita della Nazione, dinanzi al prossimo declino di una popolazione bianca sempre più vecchia, e dalla crescita sempre più lenta. Le più recenti statistiche, infatti, prospettano che gli Stati Uniti vedranno una “minoranza bianca” già dal 2045. Nel corso di quell’anno, i bianchi comporranno il 49,7% della popolazione, in contrasto con il 24,6% di ispanici, il 13,1% di neri, il 7,9% di asiatici, ed il 3,8 di individui di razza mista.

Tale spostamento di equilibri è il risultato di due differenti tendenze. In primis, fra il 2018 ed il 2060 le combinate minoranze razziali continueranno ad aumentare, crescendo di 74 punti percentuali. In secondo luogo, durante questo lasso di tempo, la sempre più vecchia popolazione bianca vedrà per il 2024 un modesto aumento immediato, seguito da un declino a lungo termine sino almeno al 2060, conseguenza di un tasso di mortalità inferiore a quello di natalità.

Fra le diverse minoranze, la maggiore crescita andrà a registrarsi fra individui di razza mista, asiatici ed ispanici, con tassi di crescita fra il 2018 ed il 2060 ammontanti rispettivamente al 176%, 93% ed 86%. L’origine di tale crescita demografica varia rispetto ai differenti gruppi. Per esempio, l’immigrazione contribuisce ad un terzo dell’incremento ispanico, con i rimanenti due terzi attribuibili all’aumento naturale (le nascite che superano le morti). Nel caso degli asiatici, l’immigrazione è legata a tre quarti della prevista crescita numerica.

Queste nuove previsioni differiscono da quelle precedentemente rilasciate nel 2014. Queste ultime collocavano l’avvento della minoranza bianca nel 2044, a causa di un’immigrazione presuntivamente più estesa ed in una più elevata crescita supposta per diversi gruppi razziali. Anche l’incremento nazionale stesso si attestava su livelli superiori nelle previsioni del 2014; si riteneva infatti che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una popolazione di 400 milioni nell’anno 2051, rispetto alle nuove previsioni che spostano tale traguardo avanti di sette anni, fino al 2058.

Dal momento che le minoranze nel loro insieme sono più giovani della popolazione bianca, il punto di svolta arriverà prima per i gruppi di età più giovane. Come mostrato nel terzo grafico, le nuove previsioni indicano che, per i giovani minori di 18 anni di età – la cosiddetta popolazione “post-millennial” – le minoranze supereranno quantitativamente i bianchi già nel 2020. Nella fascia di età compresa fra i 18 ed i 29 anni – i componenti più giovani dell’elettorato e della forza lavoro – la svolta si verificherà nel 2027.

Il verificarsi di questi punti di svolta è previsto soltanto per una fase successiva nel caso delle fasce di età più anziane, con ciò significando che i sessantenni e gli ultra-sessantenni rimarranno a maggioranza bianca anche dopo il 2060. La motivazione di questa differente evoluzione del fenomeno è riconducibile nel breve periodo al persistere dell’influenza del largamente bianco baby boom. Infatti, negli anni che decorrono fra il 2018 ed il 2060, l’unico gruppo di età della popolazione bianca a non subire riduzioni quantitative è proprio quello dei sessantenni e degli ultra-sessantenni, un gruppo che – nel suo complesso – seguita a crescere più rapidamente di ogni altro.

In tutta evidenza, è l’incremento delle giovani e fresche minoranze – attribuibile ad una combinazione di fattori, dall’immigrazione passata e presente al più elevato tasso di natalità fra i più giovani – ad impedire al Paese di invecchiare ancora più velocemente.

Il grafico 4 mostra chiaramente quanto le minoranze diverranno parte preponderante della gioventù americana attraverso il 2060. Allora, i censimenti prospettano che i bianchi costituiranno solamente il 36 % della popolazione di età inferiore ai 18 anni, con gli ispanici attestantisi intorno al 32%. Tali dati contrastano drasticamente con il contributo delle minoranze alla popolazione più anziana, che quantomeno per la sua metà continuerà saldamente a rimanere bianca.

Dal momento che le minoranze razziali costituiranno lo stimolo principale alla crescita della popolazione giovane nel Paese nel corso dei prossimi 42 anni, esse contribuiranno anche a decelerare drasticamente l’invecchiamento della Nazione. Già sin dal 2018, si conteranno fra i bianchi più vecchi che bambini e più decessi che nascite, stando alle attuali stime. Le dinamiche nell’ambito delle combinate minoranze, invece, si manterranno assai differenti fra il 2018 ed il 2060.

Le minoranze costituiranno – nel futuro che ci è dato di intravedere – la scaturigine di tutta la crescita della fetta più giovane della Nazione e della sua forza lavoro, come anche di gran parte di quella dell’elettorato, e di buona parte di quella del bacino dei consumatori e dei contribuenti. Pertanto, la sempre più rapidamente crescente popolazione anziana – largamente bianca – sarà sempre più dipendente dai contributi delle minoranze, sia dal punto di vista economico che assistenziale. Ciò suggerisce più che mai la necessità di persistenti investimenti nella giovane popolazione multirazziale del Paese, laddove il continuo invecchiamento della popolazione stessa appare, in caso contrario, un fenomeno non altrimenti contrastabile.

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SEMINARISTI BRITANNICI AFFERMANO DI VERGOGNARSI E SENTIRE IL “PESO” DELLA COLPA PER ESSERE BIANCHI.

Jack Montgomery

SESSIONI DI AUTOCRITICA: PARTECIPANTI AD UN SEMINARIO ORGANIZZATO DAL SISTEMA SANITARIO BRITANNICO ACCUSANO CON “VERGOGNA” E “SENSO DI COLPA” IL “ PESO” DEL PROPRIO ESSERE BIANCHI.

Fonte: Breitbart

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Un video recentemente emerso relativo ad un seminario organizzato dal Servizio Sanitario Nazionale britannico sul “problema” di “essere bianchi” mostra una discussione al termine della prolusione evolversi in qualcosa di assai simile a una sessione di autocritica di stampo maoista, con tanto di testimonianze dei partecipanti bianchi riguardanti la propria “white-guilt” e gli sforzi compiuti per liberarsi dal “peso” di essere bianchi.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust, meglio noto per essere, nell’ambito del sistema sanitario statale britannico, uno degli enti principali nel settore delle pratiche di cambiamento di sesso in pazienti minorenni, ha inaugurato in Novembre il seminario virtuale “Whiteness – a problem for our time”, ripetendo tale seminario il successivo 14 Gennaio, dopo che la prima data aveva visto prendervi parte il notevole numero di 700 iscritti.

La fondazione ha postato lunedì, sul proprio canale YouTube, un video integrale del seminario di Gennaio, inclusa una discussione successiva alla prolusione principale nella quale i partecipanti bianchi, la maggior parte dei quali apparivano essere a vario titolo afferenti al campo della psicoterapia, venivano esortati dall’oratrice Helen Morgan a confrontarsi con il proprio “privilegio interiorizzato”, ottenendone in risposta vere e proprie auto-accuse.

Nel video è possibile osservare un oratore venire elogiato per aver rivelato di aver provato “paura” nel dover lavorare con due individui di origine afro-caraibica, ciò nonostante le obiezioni a lui successivamente rivolte da una donna nera per aver utilizzato il termine “afro-caraibici” invece di un probabilmente più corretto “caraibici di origine africana”.

Un altro oratore, invece, confessa di aver provato a ridurre la supposta sperequazione di potere fra lui stesso ed i colleghi di colore chiedendo loro, ad esempio: “Io sono un uomo bianco, e tu una donna nera: è tutto OK per te? Pensi che saremo in grado di collaborare?”

Noi bianchi, in quanto bianchi… dobbiamo lavorare su noi stessi”, afferma un altro partecipante, rammaricandosi che un numero maggiore di bianchi ancora non si risolvano a farsi avanti per sottolineare quanto sia importante che i bianchi stessi “condividano le proprie esperienze ed il proprio razzismo”.

Mi vergogno così tanto, mi sento così colpevole di essere una sudafricana bianca”, ammette una donna particolarmente provata a livello emotivo, rivelando di aver deciso di lavorare per l’African National Congress (ANC) nella propria madrepatria considerandolo una via per “liberarsi dell’opprimente peso della propria bianchezza”, e di essersi “rifiutata di socializzare” con altri sudafricani dopo essersi trasferita nel Regno Unito.

Nel prosieguo del video, vediamo la medesima partecipante rassicurare gli altri iscritti di stare adesso lavorando per “riconoscere” le conseguenze del proprio essere bianca, rivelando comunque non aver senso “sentirsi in colpa per essere bianchi se non si fa poi niente per agire in concreto su ciò che questo comporta”.

Andrew Cooper, responsabile del seminario e membro della fondazione Tavistock, nel corso del suo intervento è chiarissimo nell’individuare nel movimento Black Lives Matter le ragioni ispiratrici del seminario stesso, palesemente su base razziale, e l’oratrice Helen Morgan si mostra altrettanto adamantina nel definire quali siano i destinatari dell’iniziativa e cosa si aspetti da essi, spiegando che “persino noi che ci auto-definiamo bianchi progressisti” ancora seguitiamo ad essere razzisti, “seppur in modo gentile”.

Come prova esemplare del persistente privilegio razziale dei bianchi, vediamo Morgan evidenziare come siano ben più numerose le donne nere che muoiono durante dando alla luce i propri figli rispetto alle partorienti bianche, anche se, denota la stessa Morgan, “la razza è un concetto costruito a tavolino assolutamente privo di fondamenti biologici.”

Con parole nette, Helen Morgan chiarisce però che la “whiteness” è comunque ancora qualcosa di sin troppo reale, anche se la cosiddetta “colour-blindness”, l’approccio che vorrebbe postulare una totale indifferenza relativamente alla questione razziale, non solo si mostra come una soluzione inadeguata, bensì un attivamente nocivo meccanismo difensivo di quello stesso privilegio bianco che a parole si suppone di combattere.

Nel corso del video, ad esempio, ci è possibile ascoltare una donna, presentatasi come un membro del consiglio direttivo dell’organizzazione di psicoterapia a cui appartiene, concordare come la “colour-blindness” di alcune pratiche di formazione sia qualcosa di “decisamente spaventoso, addirittura quasi letale”, poiché costringe le minoranze etniche a sentirsi “maltrattate” e “traumatizzate”, non riconoscendo fenomeni quali le “micro-aggressioni”, da esse regolarmente subite.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust ha organizzato entrambi i seminari con il patrocinio della British Psychotherapy Foundation, del British Psychoanalytic Council, e della Società di Psicoterapia di Tavistock.

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LA NOTTE DEL GIUDIZIO PER SEMPRE…CONTRO L’UOMO BIANCO

Giovanni Becciu

Quando il cinema è mezzo di propaganda per l’odio verso l’uomo bianco.

Apprestandovi a leggere questa “recensione”, vi consiglio ovviamente di aspettarvi anticipazioni sulla trama del film. Che dire: quest’ultimo episodio – diretto da Everardo Gout – della saga cinematografica di “La notte del giudizio” (The Purge è il titolo originale in lingua inglese), ci si mostra palesemente come un vero e proprio manifesto politico diretto contro “l’uomo bianco”, volto a mettere in scena un’odiosa estremizzazione nei confronti dei “cattivi bianchi razzisti”.

Il volgere della trama ha luogo in Texas, Stato fra i più conservatori dell’Unione, che alle ultime elezioni presidenziali ha con forza confermato il proprio supporto al Presidente Donald Trump. Al corso della consueta notte di “sfogo” annuale, una grande massa di individui – rappresentati omogeneamente come bianchi bifolchi – sceglie di proseguire a tempo indeterminato lo “sfogo” stesso, seguitando a ripulire le strade da neri, messicani e meticci. A queste ultime categorie ed ai sostenitori delle stesse appartengono ovviamente tutti i personaggi positivi: una coppia di messicani – marito e moglie – rifugiatisi negli Stati Uniti dopo aver preso parte in Patria alla lotta contro i cartelli del narcotraffico, una famiglia borghese bianca messa in salvo dai succitati messicani, un uomo nero resosi responsabile del salvataggio della donna messicana, aggredita da uno stereotipato bianco con tanto di svastica tatuata in faccia, i cittadini messicani tutti considerati come un unicum, che per pura bontà d’animo si adoperano per soccorrere i bianchi americani, un capo indiano che – criticando ampiamente il muro costruito dal Presidente Trump – guida verso il confine un gruppo misto di messicani e bianchi, ravvedutisi circa la bontà e la bellezza della società multirazziale.

Se tutti costoro appaiono essere “i buoni”, è assai facile immaginarsi chi possano essere “i cattivi”: un gruppo di lavoratori bianchi scontenti che – vestitisi da cowboy – cercano di attuare la propria vendetta nei confronti della succitata famiglia borghese, numerosi esaltati – sempre bianchi – che sparano nel mucchio, il succitato nazistoide con la svastica sul volto, gli appartenenti al movimento dello “sfogo per sempre” – ovviamente tutti bianchi anch’essi – ritratti omogeneamente come biondi e “razzisti bifolchi” (definizione usata letteralmente nel film dal summenzionato borghese liberal).

Il finale del film è chiaramente prevedibile: i “cattivoni” bianchi vengono massacrati dalla composita compagine multirazziale, e tutti i vincitori riparano con successo in un accogliente Messico, dove trovano ad attenderli soccorso, cure ed accoglienza. Che dire, ancora? Nel contesto attuale della cultura statunitense, la produzione di una simile opera cinematografica può significare soltanto una cosa: è aperta la caccia a tutti quei bianchi determinati a non piegarsi ai dogmi della società multietnica e del globalismo, ed al pensiero dominante. Se persino il Messico – Nazione notoriamente preda di sanguinosissimi contrasti di ogni genere – giunge ad esser rappresentato come l’idealtipo di un “nuovo sogno americano”, beh, veramente resta ben poco da aggiungere.

Quanta pochezza, signori. Quanto odio verso l’uomo bianco.

LA FINE DI UN’ERA…PER I MASCHI BIANCHI

David Rothkopf

Cambiano i rapporti demografici, e con essi la definizione di privilegio.

Fonte: Foreign policy

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Il seguente articolo non è stato tradotto con l’intento di appoggiare ciò che scrive l’autore, ma piuttosto come articolo critico mettendo in evidenza un grave fattore, di cui nessuno sembra voler parlare e interessarsi.

L’uomo bianco ha fatto molta strada. Dall’ascesa della Grecia classica alla nascita degli imperi globali sorti in Occidente, è riuscito ad accentrare nelle proprie mani gran parte del mondo, o quantomeno ci ha provato. Un ruolo storico così imponente segue necessariamente decisioni compiute dal capoccia bianco di turno, assecondando null’altro che la propria volontà. Diversi fattori hanno contribuito a rendere il momento presente uno spartiacque nella storia globale. Innanzitutto, la crescita del cosiddetto mondo emergente, con particolare attenzione alle economie e alle società asiatiche. Laddove il pianeta ha sempre ospitato grandi civiltà non bianche, tali sistemi sociali sono sopravvissuti vivacchiando in un flusso e riflusso di importanza relativa. Oggi, invece, la crescita di queste società – segnatamente Cina e India – è di chiarezza cristallina, ed altrettanto lo è quella di altre grandi e floride culture medio-orientali e africane, grazie a riforme politico-economiche, a progressi scientifici e tecnologici, ed all’avvento del mondo interconnesso.

In più, millenni di repressione dei diritti delle donne si apprestano a terminare. Non in modo sufficientemente rapido, senz’altro, e non ovunque, ma in gran parte del mondo occidentale aree un tempo dominate dal potere maschile sono popolate da un numero di donne mai visto prima, e fortunatamente questo trend non mostra segni di un imminente cambiamento di verso. Ad ogni latitudine, inoltre, sempre più donne si accingono a mettere altre donne – comprese giovani e giovanissime – ad assumere ruoli di avanguardia nel campo delle tecnologie digitali. Per metterla semplice: sembra essere adesso opinione comune che nessuna società possa prosperare se non riesce a valorizzare al meglio le risorse intellettuali, economiche, creative, spirituali dell’intera sua popolazione.

Infine, grazie alla rivoluzione degli spostamenti occorsa nel secolo passato, flussi di rifugiati e migranti di ogni genere hanno modificato i rapporti demografici delle società e, fatte salve contestazioni ed altre situazioni di disagio, si sono dimostrati essenziali nel combattere determinati trend, quali l’invecchiamento, che hanno messo a repentaglio la sopravvivenza stessa di diverse società avanzate.

Diseguaglianze, ingiustizie e, per dirla francamente, un vero e proprio affaticamento delle energie sociali hanno condotto le popolazioni verso scelte differenti. Ancora, le medesime società che hanno procurato all’uomo bianco la sua massima influenza nel mondo – Europa e Stati Uniti – si trovano a condurre lotte cruciali al fine di mantenere intatta la stessa propria rilevanza globale. Le problematiche economiche picchiano duro su di esse, e le divisioni politiche costituiscono un innegabile ostacolo alla loro crescita e capacità di agire. Come la Storia ha insegnato, è assai complesso mantenere la vetta a tempo indeterminato.

Il risultato dei menzionati processi altro non può essere che un profondo cambiamento dello status quo stabilizzatosi nei passati millenni. Soltanto in Europa, l’afflusso di migranti e rifugiati sta già dando luogo a cambiamenti demografici irreversibili, producendo un esteso mescolarsi di culture diverse.

Per la metà di questo secolo, negli Stati Uniti, si prevede un cambiamento di maggioranza nel complesso della popolazione, maggioranza che, a detta dei demografi, diverrà non-bianca. Per allora, l’Europa avrà già accolto numeri massivi di immigrati dall’Africa e dal Medio-Oriente, così come dall’Asia, ed entro il 2050, si stima, toccherà ai maschi bianchi esser relegati nella categoria “altro” sui formulari dei censimenti.

Nei fatti, sarà l’idea stessa di “altro” a subire le maggiori variazioni di significato. Attualmente scottante argomento di dibattito, la diversità negativa è stata utilizzata come un utile stratagemma per spargere allarmismi sul conto di migranti, immigrati e rifugiati – un approccio, questo, naturalmente radicato nell’ignoranza e nell’intolleranza. (Gli attacchi al primo presidente nero degli Stati Uniti d’America hanno del resto avuto origini similari, e si sono mostrati egualmente riprovevoli.) Sia che la supposta minaccia sia associata all’Islam o all’estremismo, sia che faccia leva sulle competizioni economiche interne ad un dato Paese, la verità è che le paure che sono andate diffondendosi hanno soverchiato di molto la realtà dei fatti.

Uno psicoterapeuta che conoscevo, una volta ha detto che se una reazione è sproporzionata rispetto alla presunta causa che la provocherebbe, allora un pezzo dell’intera storia alla sua base è stato omesso. In questo caso, i politici che in Europa ed in America che senza tregua sputano bile nazionalista e rinfocolano le fiamme del furore xenofobo si appoggiano sul crescente, seppur inconscio, riconoscimento culturale del fatto che le lancette corrano per quella che un tempo è stata la classe etnica più privilegiata al mondo.

Ovviamente, la mobilità umana non deve essere combattuta, bensì accolta. Mentre l’appartenenza ad una determinata comunità si situa nel nostro DNA per ragioni legate alle unità sociali di sopravvivenza dei nostri più antichi antenati, la lunga storia della civilizzazione e del progresso si basa proprio sul mescolarsi e rimescolarsi delle suddette unità sociali.
Ci si presentano, dunque, due fondamentali lezioni da apprendere. La prima è che, stante il fatto che la civiltà ci appare oggi assai più sicura, felice, ricca, consapevole ed in salute di quanto sia mai stata, sembra che l’apporto della condivisione di idee, culture e valori sia stato completamente positivo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, è la loro stessa storia a parlare: a partire dal XVIII secolo, nuovi gruppi hanno fatto il loro ingresso nel Paese, e sono stati fatti oggetto di resistenze e risentimenti – irlandesi, italiani, est-europei, ebrei, quello che si vuole. Nonostante ciò, con il tempo ogni gruppo ha saputo apportare grandi contributi agli Stati Uniti, un Paese divenuto sempre più forte ad ogni ondata di nuovo sangue e nuove idee.

La seconda lezione è che un’alternativa ad “altro” esiste, ed è “tutto”. Piuttosto che focalizzarci sulle nostre differenze come i nostri leader politici più meschini e pericolosi hanno fatto, i nuovi leader di questa nuova era sapranno distinguersi concentrandosi non soltanto sulla diversità sociale che rende grandi le Nazioni, ma ma sugli autentici e stupefacenti benefici della diversità che già vive all’interno di tutti noi.

Laddove nazionalisti, suprematisti bianchi, ed idioti assortiti che a orde li seguono hanno sparso semi di divisione sulla scia dei rinnovati flussi umani attraverso i confini, la tragica ironia consiste nel fatto che costoro, in pratica, hanno finito per abbracciare precisamente il medesimo tipo di intolleranza che costituisce il marchio di fabbrica dei loro nemici giurati.

Ciò di cui abbiamo bisogno sono invece uomini e donne disposti ad alzarsi ed a proclamare: “No, vi sbagliate. La diversità non è una minaccia, è la risposta.”

È stata infatti la diversità a rendere grande l’America ed ogni altra società multiculturale. Già, proprio così: neppure per un misero minuto dovremmo piangere la fine dell’era del maschio bianco, in quanto sussiste una speranza, un barlume di speranza almeno, che oltre le sue ceneri si approssimi finalmente la tanto attesa era del “tutto.”